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Qui Radio Praga, è in arrivo l’Armata Rossa

Era un anno destinato a dare il nome addirittura ad un’epoca. Era cominciato addirittura quattro anni prima a Berkeley, in California, dove gli studenti dell’Università avevano dato il via a qualcosa che avrebbe finito per travolgere tutto e tutti. La rivolta universitaria era diventata in breve tempo rivolta generale, approfittando dei venti di cambiamento che spiravano potenti. Il mondo ingessato dalla Guerra Fredda e paralizzato dal Maccartismo si scoprì quell’anno finalmente insofferente, e agli studenti seguirono tutte le società nel loro complesso, in tutti i paesi dell’Occidente.

Il Sessantotto fu un fenomeno occidentale, ma era cominciato – addirittura esploso – ad Est. Il 5 gennaio era stata la Cecoslovacchia a suonare il primo squillo di tromba, al di là della Cortina di Ferro. Dei paesi del blocco comunista, era quello che aveva sofferto di più l’assetto cementatosi nel dopoguerra. Paese industrializzato, di grandi tradizioni culturali, la Cecoslovacchia decise di ritentare la sorte che già era stata sfidata dall’Ungheria nel 1956.

Imre Nagy aveva inteso la destalinizzazione di Kruscev nel senso di affrancamento dalla guida e dal controllo politico e militare dell’URSS, a sua volta soggetta alla guida ed al controllo del Partito Comunista e dell’Armata Rossa. Era andata male, e i carri armati spediti da Kruscev a soffocare la rivolta magiara avevano tolto le illusioni e provocato le prime crisi di coscienza ai comunisti di tutto il mondo. Gli intellettuali avevano iniziato ad abbandonare disgustati i partiti comunisti, mentre i loro segretari ratificavano la condanna a morte di Nagy, l’italiano Togliatti in primis. Il sistema era parso riformabile (ci avrebbero creduto ancora in molti fino agli anni Ottanta, fino a Gorbacev), ma forse in realtà non lo era.

Alexander Dubcek

Alexander Dubcek

Alla fine degli anni Sessanta, la faccenda sembrò diversa e le possibilità migliori. Il vento del cambiamento sessantottino non poteva fermarsi alla Cortina di Ferro. Quando il riformista Alexander Dubcek successe all’ortodosso brezneviano Antonin Novotny alla guida del Partito Comunista cecoslovacco, fu chiaro da subito che l’esperimento di Budapest si sarebbe ripetuto a Praga. Sotto gli occhi apparentemente impassibili di Mosca.

Dubcek dette il via ad una serie di riforme consistenti nel decentramento dell’amministrazione e della gestione economica, che senza mistero alcuno erano finalizzate all’introduzione graduale della democrazia nel paese. Fu il primo inoltre a prevedere quale sarebbe stato il destino di una nazione che in realtà era sorta dalla fusione coatta di due etnie diverse all’indomani della dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico e poi mantenuta nel dopoguerra dal Patto di Varsavia, i Cechi e gli Slovacchi. Il leader riformatore propose con 24 anni di anticipo quello che sarebbe stato l’epilogo naturale della rivoluzione di velluto guidata dal suo amico Vaclav Havel: la creazione di due repubbliche indipendenti.

Ma a differenza del 1992, nel 1968 gli occhi di Mosca – per quanto inizialmente impassibili – non erano affatto indifferenti. Breznev non era Gorbacev, e men che meno Eltsin. Mentre il Sessantotto sconvolgeva l’Europa occidentale entrando per la porta del Maggio Francese, i russi si accorsero che altrettanto poteva succedere in quella orientale per effetto della Primavera di Praga. Il Patto di Varsavia cominciava a scricchiolare, invidioso o timoroso – a seconda dei sentimenti dei leader e dei popoli – delle riforme di Dubcek e della prospettiva di un dissolvimento pacifico del blocco sovietico.

Una foto emblematica, come quella scattata vent'anni dopo in Piazza Tienanmen

Una foto emblematica, come quella scattata vent’anni dopo in Piazza Tienanmen

Non era destino, neanche quella volta. Il 21 agosto 1968 Radio Praga annunciò alla popolazione ed al mondo che i carri armati con la stella rossa erano di nuovo in marcia. Non più lungo le pianure ungheresi ma attraverso le colline cecoslovacche. L’esercito nazionale (di dubbia lealtà all’alleato sovietico) fu tolto di mezzo e spedito al confine con la Germania Ovest ufficialmente per sconsigliare agli occidentali tentativi di ingerenza nella questione in corso, risolta a quel punto da un’Armata Rossa senza avversari nel giro di una giornata.

Jan palach

Jan Palach

Arrestato dalle forze speciali sovietiche e portato a Mosca, Dubcek (a differenza di quanto era successo a Nagy) salvò la vita e almeno formalmente anche il potere sottoscrivendo un trattato in base al quale si impegnava a rimangiarsi tutte le riforme adottate. Praga tornò ortodossa nel giro di una stagione, la sua Primavera non sopravvisse all’estate. La popolazione continuò a dimostrarsi ostile agli ex alleati e adesso occupanti sovietici, una ostilità che culminò nel gennaio successivo con le clamorose manifestazioni di alcuni studenti – il più famoso dei quali è rimasto Jan Palach – che si dettero fuoco in Piazza San Venceslao per protesta contro il regime.

Sostituito di lì a poco dal più affidabile Gustav Husak, Dubcek avrebbe fatto appena in tempo a vedere il crollo del Muro di Berlino e l’avvio della rivoluzione che avrebbe portato i superstiti della sua Primavera al potere nella nuova Repubblica Ceca sorta dalla rivoluzione di velluto di Vaclav Havel. Morì il 1° settembre 1992 per i postumi di un incidente stradale ed è sepolto a Bratislava, nella natìa Slovacchia.

La fine della Primavera di Praga fu probabilmente anche la fine dell’illusione di un comunismo democratico. I partiti comunisti occidentali andarono in crisi rispetto ai propri militanti, con la fuoruscita di tanti intellettuali destinati a dar vita alle cosiddette formazioni extra-parlamentari di sinistra. Il P.C.I. avviò negli anni successivi all’intervento sovietico in Cecoslovacchia la revisione della propria dottrina in senso eurocomunista e di progressivo distacco dal ruolo guida e dall’alleanza con il paese leader della rivoluzione mondiale, l’Unione Sovietica.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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