«Non giudicare ogni giorno dal raccolto che hai fatto, ma dal seme che hai piantato»
Per i bambini della mia generazione, l’incontro con Robert Louis Stevenson avveniva di regola durante il decorso delle malattie esantematiche. Ricordo che la Freccia Nera me la lessi tutta durante la varicella, L’isola del tesoro durante la rosolia. L’incredibile vicenda del Dr. Jekyll e Mr. Hyde mi accompagnò durante la scarlattina. Con le traversie del Ragazzo rapito scollinai il morbillo, che allora si faceva senza problemi, evitando campagne vaccinali che forse non avevano e non hanno più fondamento della mappa del tesoro di Long John Silver.
Stevenson era la scoperta fatidica dell’avventura da parte di un’infanzia e di una adolescenza disposte a viverla così come l’aveva vissuta lui, giovane figlio di un ingegnere edile scozzese che nei suoi anni più verdi non aveva sognato altro che di scappare via dal clima inclemente, dai cieli grigi e dalle brume della pur amata Scozia, nonché dalle affezioni polmonari che gli causavano e che l’avrebbero afflitto per tutta la vita. E scoprendosi dotato di un talento unico, quello della scrittura al servizio della fantasia, c’era riuscito ben presto girando il mondo con la penna prima ancora che fisicamente.
Se Daniel Defoe aveva inventato il romanzo d’avventura e sir Walter Scott ne aveva fatto un monumento nazionale, R. L. Stevenson gli dette la dimensione moderna che conosciamo oggi. Il primo a dare ai suoi personaggi tra l’altro uno spessore psicologico unico anche per i tempi successivi ai suoi.
Nel 1883, quelli che dovevano essere i suoi romanzi di formazione si presentarono da subito come capolavori ancora oggi insuperati. La sua passione per la storia produsse nello stesso anno La Freccia Nera, ambientato nel turbolento periodo che vide la fine della guerra civile tra le Due Rose e la nascita dell’Inghilterra moderna, e L’Isola del tesoro, che rimetteva insieme, codificandolo una volta per tutte, l’armamentario complessivo delle storie e leggende sui pirati, fuorilegge che in qualche modo erano riusciti a guadagnarsi quasi l’ammirazione, piuttosto che l’esecrazione, da parte dei popoli a cavallo delle due sponde dell’Oceano Atlantico. Quest’ultimo romanzo di Stevenson in particolare era risultato così avvincente, che non sarebbe più stato possibile a nessun altro scrittore discostarsi dal canone stabilito da quella mappa con la X segnata sopra, da quella bandiera nera con il teschio e le tibie, il Jolly Roger, da quella canzone cantata dai filibustieri, Quindici uomini, quindici uomini…..
L’altra sua passione era la psicologia, i suoi personaggi non coincidono mai moralmente né con il bene né con il male. Le sfumature di grigio sono tante, e come il Tolkien che fa consigliare al suo Gandalf di non avere mai fretta nel dispensare giudizi e destini, così Stevenson invita il lettore a fare altrettanto seguendo la sua narrazione. Il protettore di Dick Shelton e Joanna Sedley nella Freccia Nera, colui che permette loro di avverare il proprio sogno d’amore sconfiggendo il malvagio sir Daniel Brackley, in realtà è Richard duca di Gloucester, uno dei personaggi più infami e crudeli che la storia inglese ricordi. Nell’Isola del tesoro, il cattivo John Silver si rivela alla fine il miglior alleato del giovane protagonista Jim Hawkins, una simpatica canaglia in stile Jack Sparrow, che alla fine si merita la salvezza e la fuga verso nuove avventure, lasciando a Jim la preziosa consapevolezza che non tutto il male viene dai pirati e non tutto il bene da chi dice di volerli combattere.
Nel giro di pochi anni, Stevenson produsse quanto bastava a riempire la biblioteca di un ragazzo, vedi alla voce avventura. Kidnapped, il ragazzo rapito, è un affresco della storia scozzese nel periodo critico che a metà del Settecento vedeva infuriare ancora la lotta neanche tanto sotterranea tra lealisti all’unione con l’Inghilterra e lealisti Stuart (a lungo il figlio del re Giacomo II deposto nel 1688 dai protestanti fu chiamato dai suoi sostenitori Giacomo III il vecchio pretendente), tra il clan dei Campbell e quello degli Stewart, sullo sfondo di una natura aspra come quella che aveva angustiato l’infanzia del giovane autore e di una latente guerra civile come quella che avrebbe accompagnato la Scozia per tutto il secolo diciottesimo ed anche oltre. La storia di David Balfour, il protagonista che sfugge ad un terribile destino come schiavo nelle piantagioni delle colonie americane e torna in patria a reclamare il suo nome e la sua eredità, si intreccia con quella di personaggi storici realmente esistiti, come la Volpe Rossa Colin Campbell ed il suo acerrimo nemico Alan Breck degli Stewart.
Ancora storia scozzese nel Master di Ballantrae, ma qui la fa da padrona la psicologia, l’esplorazione di quel lato oscuro o comunque meno accessibile della mente che cominciava ad affascinare gli scienziati ed i letterati di tutto il mondo. Il tema del doppio è affascinante, i due fratelli di Ballantrae – uno buono ma poco carismatico, l’altro cattivo ma in modo pericolosamente accattivante – si combattono per tutta la vita, fino ad un finale che può essere a sorpresa soltanto in senso strettamente romanzesco. Non c’è happy end. E’ il buono a prevalere sul cattivo uccidendolo, ma è il cattivo alla fine ad aver vinto, perché è riuscito ad attirare il fratello verso il proprio lato oscuro. A renderlo in sostanza simile a sé annullandone le qualità migliori.
Il tema dello sdoppiamento della personalità ritorna nel romanzo più suggestivo di Stevenson, Lo strano caso del dr. Jekyll e mr. Hyde. Anche qui c’è un doppio, ma è indotto dall’uso di ritrovati scientifici. In epoca tardo vittoriana erano molti coloro che cominciavano a studiare la mente umana e a ritenere di poterla disvelare o condizionare mediante tecniche sperimentali. La pozione messa a punto da Jekyll, scienziato ed intellettuale tipico vittoriano, integerrimo e perfettamente integrato nella società del tempo, equivale l’ipnosi, la nascente psicoanalisi e tutto quanto i primi alienisti pensavano di poter impiegare per tirar fuori ciò che di profondo (e spesso di oscuro) sta dentro di noi.
Il problema di Jekyll è quello dell’apprendista stregone. Una volta scoperchiato il vaso di Pandora del nostro inconscio, una volta liberata quella forza della natura poderosa che giace come una bestia dormiente nell’animo umano, si scopre che – al pari della prorompente sete di vendetta del più buono dei Ballantrae – ciò che si è messo in moto non può ad un certo punto essere più controllato. E quando i condizionamenti sociali saltano, è la parte violenta, intemperante, malvagia di ognuno di noi che ha più probabilità di prevalere.
La controparte psicologica di Jekyll è Hyde, un essere mostruoso, disgustoso, francamente non associabile a qualsiasi consorzio umano civile, che con il passare del tempo prende sempre più il sopravvento sulla psiche del dottore, anche senza più bisogno della pozione. Alla fine resta solo Hyde, un essere a cui la società civile deve dare la caccia per eliminarne la pericolosità, perché ormai non c’è limite né argine alle mostruosità che può compiere. Chissà se Stevenson, scomparso nel 1894 prematuramente a causa di una emorragia cerebrale, ha mai avuto sentore di quanto questo suo romanzo più che dipingere un’epoca, la sua, prefigurasse quella successiva: il secolo ventesimo, che di mostri ed apprendisti stregoni ne avrebbe conosciuti molti di più.
La morte lo colse mentre stava scrivendo un nuovo racconto ambientato nella sua natìa, lontana ed impossibile Scozia, Weir of Hermiston. Da qualche anno ormai viveva nelle per lui più salubri isole Samoa, dove inizialmente l’aveva spedito un editore affinché rinverdisse i fasti letterari di un Defoe o di un Melville. Stevenson non aveva deluso neanche in questo caso, il suo reportage 06 è un’opera preziosissima per ricostruire la vita dei polinesiani alla fine del diciannovesimo secolo, l’ultimo in cui una parvenza del loro stile di vita originario sopravviveva ancora. Il britannico Stevenson non fa mancare le sue critiche aspre al colonialismo di cui la sua madrepatria era la principale esponente. Più che a causa delle guerre e delle malattie arrivate dal vecchio Continente, gli indigeni si spegnevano a poco a poco per non poter più condurre la vita secondo il proprio stile, costretti a perdere la propria innocenza a causa del prevalere del moralismo europeo.
Robert Louis Stevenson è sepolto nelle Isole Samoa sul monte Vaea, lontano dalla Scozia, lontano da un mondo che non era più il suo, ma che aveva saputo raccontare come pochi altri. L’epitaffio sulla sua tomba se lo era scritto da solo: «Qui egli giace dove desiderava essere, A casa è il marinaio, a casa dal mare, E il cacciatore a casa dalla collina».
Restano quei suoi libri nella nostra biblioteca. Ce li abbiamo tutti, siamo cresciuti con Jim Hawkins, Dick Shelton, David Balfour e da adolescenti ci siamo ritrovati poi con le angosce di Henry Jekyll. Ma anche con il ricordo di quei bellissimi sceneggiati RAI, che avevano dato perfetta riproduzione alla nostra fantasia. L’isola del tesoro era stato il primo sceneggiato RAI di successo, negli anni cinquanta. E quella canzone dei pirati tanti anni dopo la cantavano ancora tutti. Ma proprio tutti.
Lascia un commento