LeVar Burton è Kunta Kinte nello sceneggiato del 1976
Il 4 luglio è una ricorrenza che il mondo ha imparato a celebrare quando ha preso coscienza dei doni che gli ha fatto la rivoluzione americana del 1776. Una ricorrenza comunque controversa, che molti invece disertano o ignorano in odio soprattutto al paese che l’ha posta nel calendario, oppure in considerazione di quale è stato per loro il prezzo da pagare per quei doni, il rovescio di ogni medaglia che si rispetti.
E’ il caso degli americani dalla pelle rossa e di quelli dalla pelle nera. I primi all’epoca del Bicentenario erano reduci dall’ultima illusione trasformatasi nell’ultima sanguinosa delusione. Nel 1973 a Wounded Knee, nello stesso luogo dove nel 1890 erano terminate le Guerre Indiane, i Native Americans avevano capito che la dichiarazione di indipendenza li escludeva per il tempo a venire come aveva fatto per quello passato. Così come per lungo tempo aveva escluso gli Afroamericani, termine con cui in epoca di politicamente corretto si indicano i discendenti di coloro che vennero strappati all’Africa e condotti in schiavitù nel Nuovo Mondo.
Uomini bianchi e uomini neri erano arrivati più o meno nello stesso periodo in America, ed entrambi avevano viaggiato in terza classe, la stiva dei velieri che ripetevano la rotta oceanica aperta da Cristoforo Colombo. I bianchi fuggivano da un’Europa che per loro non aveva posto, e che li perseguitava per idee religiose e poi politiche parificate alla bestemmia e trattate come allora la bestemmia si trattava.
Per pagarsi il passaggio in Virginia e nelle prime colonie anglo-francesi (la Spagna aveva sterminato gli eretici da tempo e nel Nuovo Mondo mandava soltanto conquistadores in cerca di oro), molti si vendevano come schiavi con contratto a termine: sette anni in una piantagione pagavano un biglietto da Plymouth in Inghilterra a Plymouth nel New England.
Ma era un sistema poco funzionale. I bianchi, così come i pellirosse, si prestavano male alle condizioni di vita delle piantagioni, e ben presto qualcuno dei governatori che erano venuti dopo Colombo ebbe la brillante idea di andare a cercare popolazioni meno refrattarie. Bartolomé de las Casas aveva osservato che gli africani erano più addomesticabili degli indios, i quali preferivano lasciarsi morire piuttosto che vivere in catene. Quanto ai settari che scappavano dalle persecuzioni cattoliche in Europa, dopo pochi anni erano liberi, quindi inutili. L’unica era semmai bruciarli, come l’Inquisizione aveva fatto e faceva con gli Ebrei o i Moriscos.
Agli uomini neri non fu dunque chiesto se volevano trasferirsi di continente, abbandonando la vita tribale che era loro connaturata da tempo immemorabile insieme alla loro cultura. Una cultura che era peraltro il loro punto di debolezza. Gli africani erano stati tagliati fuori dalle correnti della storia che avevano favorito l’affermarsi del Cristianesimo in Europa, ed erano stati costretti ad abbracciare l’Islam sotto la spinta delle scimitarre dei conquistadores arabi succedutisi agli eredi di Maometto.
La schiavitù era praticata da tempo immemorabile in Africa, e le tribù in perenne guerra tra loro ne facevano largo uso. Il primo schiavista del nero africano fu il nero africano, e quando arrivarono i mercanti di uomini dall’Arabia trovarono una popolazione già predisposta a quell’infame commercio. I neri, che avevano già costruito le piramidi per gli Egizi e gli anfiteatri per i Romani, proseguirono il loro calvario al servizio di nuovi padroni, e poi ancora di altri.
Gli spagnoli prima e gli inglesi e francesi poi furono ben felici di subentrare nel commercio, per loro a costo zero, della carne umana. Le piantagioni e gli altri insediamenti europei del Nuovo Mondo beneficiavano di manodopera a buonissimo mercato. Una manodopera messa a disposizione dalla sua stessa cultura originaria, così come era successo ai pellirosse. Se gli indiani si erano fatti sorprendere pressoché disarmati dagli yankees a causa della loro filosofia di vita che stimolava la spiritualità ma non certo il progresso così come lo intendiamo noi occidentali, gli africani pure erano rimasti tagliati fuori dalle correnti di pensiero, di derivazione cristiana o meno, che avevano favorito l’evoluzione delle condizioni di vita dell’uomo bianco e delle filosofie che ne stavano alla base.
Questa era la storia che stava dietro alla schiavitù in America, ed al suo perdurare ben oltre le date di scadenza poste ad essa dalle potenze coloniali europee originarie. Quando Thomas Jefferson ottenne la firma del Congresso sulle sue evidenti verità premesse alla Dichiarazione di Indipendenza, tra cui il diritto alla libertà, all’uguaglianza ed alla felicità, dovette rassegnarsi a lasciarne fuori gli americani dalla pelle nera incatenati nelle piantagioni del Sud. C’era il rischio in caso contrario che la Virginia e gli altri stati schiavisti si schierassero con gli inglesi. I quali furono furbi al punto da offrire la libertà a quegli schiavi che fossero andati a combattere con le Giubbe Rosse di Cornwallis, contro i ribelli di Washington. La storia andò come andò, ed i neri americani dovettero attendere Abraham Lincoln per ricevere novant’anni dopo una proposta altrettanto conveniente.
Quando gli Stati Uniti celebrarono il Bicentenario della loro nascita e costituzione, realizzarono cose egregie in tutti gli ambiti culturali. Ma la cosa forse più egregia fu quella di recuperare una parte della loro storia di cui non si era parlato che poco, saltuariamente e a mezza voce. Fuori dalle scuole, fuori dalla cultura ufficiale. C’era sì l’Oscar dato ad Hattie McDaniels per Via col vento, c’erano stati Sidney Poitier in Indovina chi viene a cena, Mohamed Alì ed il rifiuto della divisa americana impegnata in Vietnam, il sacrificio di Malcom X e quello di Martin Luther King. C’era stata Angela Davis e le sue Black Panthers, il pugno chiuso di Tommy Smith sul podio di Città del Messico, il primo supereroe colored della Marvel, Luke, e quel Rocky che aveva tentato di riscattare insieme sia la storia dei neri con Apollo Creed che quella degli italiani d’America con Rocky Balboa.
Ma era della storia pù controversa, meno presentabile, che si parlava ancora poco, quella dei cittadini comuni con la pelle nera. E del perché cento e passa anni dopo l’emancipazione concessa da Lincoln vivessero in molti casi ancora in condizioni di segregazione, appena un po’ migliori – ma non troppo – rispetto a quelle sudafricane.
Bisognava trovare un soggetto che colmasse la lacuna a dovere. C’era quel pubblicista, Alex Haley, che aveva già messo a segno colpi come l’intervista a Malcom X, notoriamente poco incline a concederne, che era sfociata nel best seller intitolato Autobiografia. Haley aveva poi raccontato una storia singolare. La prima del suo genere.
Spinto dalla filosofia del leader dei Musulmani Neri che già aveva suggestionato il giovane campione olimpico e mondiale di boxe Cassius Clay, Haley aveva riflettuto su quel rifiuto del nome da schiavo che spingeva molti conversi all’Islam afroamericani ad assumerne uno nuovo, scelto stavolta da loro e dalla nuova religione. Haley, temperamento poco religioso e molto giornalistico, non cambiò il suo, ma intraprese una ricerca per arrivare a capire quale fosse il nome originario della sua gente. Da dove essa venisse. Come si chiamavano i suoi luoghi natii, non certo quelli in cui un padrone bianco, buono o cattivo che fosse, li aveva battezzati a suon di frustate ma piuttosto quelli in cui lo sciamano li aveva presentati appena nati alla luna, all’unica cosa più grande di loro. Il battesimo dello spirito, prima ancora che della carne.
Nella famiglia di Haley si tramandava da generazioni una storia secondo cui il capostipite del loro ramo americano era un mandinka del Gambia. Il suo nome era Kunta Kinte. I suoi padroni virginiani l’avevano ribattezzato Toby, e l’avevano sempre ripreso dai suoi tentativi di fuga, punendolo ogni volta più duramente. Orgoglioso figlio di guerrieri, solo la morte alla fine l’aveva sconfitto. Aveva lasciato una figlia di nome Kizzy, venduta ad altra piantagione, ed un nipote di nome George, il primo della sua famiglia ad affrancarsi, che aveva preso il soprannome di Chicken, Gallo, per la sua abilità nel trattare con quegli animali.
Il figlio di George, Tom che aveva preso il cognome Harvey dell’ultimo padrone legale, era stato affrancato alla fine, come tutti i suoi simili, dalla vittoria dei nordisti nella Guerra Civile. Sua figlia Cinthya avrebbe sposato Will Palmer, il primo uomo di colore della sua contea a possedere una impresa economica, la segheria in cui aveva lavorato come bracciante. La loro figlia Bertha, alla fine del secolo, sarebbe stata la prima a poter studiare all’università. Sposata ad un compagno di studi, Simon Haley, avrebbe dato alla luce Alex, che un giorno avrebbe sentito il bisogno di andare indietro nel tempo, oltre quel 1750 in cui il non ancora schiavo Kunta Kinte era nato nel suo villaggio africano, secondo i racconti che erano arrivati a lui dalla nonna Cinthya.
La quale aveva mandato a memoria alcune parole africane. Kamby Bolongo era il Gambia, il fiume sulle cui rive sorgeva Juffure, il villaggio della famiglia Kinte. Dove Omoro e Binta avevano presentato alla luna il loro primogenito Kunta, che poi a 17 piogge, cié a 17 anni, nel 1767, era stato rapito dai taubob, gli uomini bianchi cacciatori di schiavi.
Alex Haley si era messo in caccia, con questi pochi ma significativi indizi. Ad Annapolis nel 1767 era attraccata una nave chiamata Lord Ligonier, proveniente dalle coste dell’Africa. Non c’era il nome Kunta Kinte tra i passeggeri, considerati e trattati come bestie senza nome. Ma in qualche modo Haley aveva rintracciato la nave negriera fino in Africa. E soprattutto aveva rintracciato Juffure, sulle rive di Kambi Bolongo. C’era ancora un villaggio con quel nome, e c’era ancora in esso una famiglia Kinte, che secondo la tradizione orale tipica del luogo si tramandava ancora le storie passate, anche quelle di molte piogge prima. Una di queste storie narrava del primogenito della famiglia Kinte, Kunta che si era addentrato nella boscaglia per trovare l’occorrente per fabbricare un tamburo per il suo fratellino. E non era più tornato.
Abbracciati i suoi cugini africani, Alex Haley era tornato in patria e aveva scritto Roots, Radici. Era il primo della sua razza a ricongiungere le due metà della sua storia familiare troncate dalla frusta degli schiavisti.
Quando il Bicentenario dell’Indipendence Day si sentì pronto a celebrare e raccontare anche storie di americani che non appartenevano al ceppo originario wasp, il libro di Haley gli cascò a fagiolo.
La miniserie prodotta negli USA arrivò in Italia due anni dopo, nel 1978, e anche qui fu un evento epocale. Non si era mai parlato di schiavitù così apertamente e diffusamente, e le drammatiche scene della fiction catapultarono tutti gli spettatori di ambo le sponde dell’oceano nel cuore della storia e del problema.
Radici fu l’evento televisivo e culturale degli anni settanta. Dopo di allora, nessuno di qua o di là dall’Atlantico poté più dire non sapevo.
Lascia un commento