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Regionali 2023 – L’era del cinghiale in bianco

«Votare? Se servisse a qualcosa non ce lo lascerebbero fare». La frase è di Mark Twain, americano della metà dell’800, già allora disamorato della più giovane democrazia della storia moderna del mondo.

La frase dev’essere passata per la testa a molti nostri connazionali, cittadini della più antica repubblica della storia del mondo.

Mettetevi nei panni di un romano qualsiasi. Per la quinta volta in vent’anni chiamato ad eleggere colui o colei che devono essere investiti della più alta magistratura regionale. E dopo cinque volte (per stare soltanto all’ultimo scorcio di secolo) si ritrova al momento di decidere se recarsi al seggio con un’unica certezza: comunque vada, qualunque nome barrerà sulla scheda con la poco maneggevole matita copiativa, stasera si ritroverà al cassone della monnezza fianco a fianco al solito cinghiale. Residente a Roma Capitale tra l’altro dallo stesso suo tempo, e pertanto ormai a pari suo meritevole della cittadinanza, con annessi diritti civili e politici. Capace che si conoscono anche bene, dopo lunga frequentazione, e da bravi vicini si augurano anche la buonanotte.

A Milano le cose vanno meglio soltanto in apparenza. I lumbard sono meno tolleranti con i cinghiali, ma Milano ha cessato da tempo di essere quella da bere. Anche il milanese che deve recarsi a votare si fa ormai troppe domande, e tutte o quasi hanno la celebre risposta di Mark Twain.

Lazio e Lombardia, capitale politica e capitale economica avevano le legislature regionali in scadenza. Un bel test per un centrodestra fresco di approdo al governo e per un centrosinistra alle prese con primarie meno scontate di tante altre e con una rivincita da prendersi non foss’altro che per sopravvivere.

Non c’hanno capito niente tutti e due, come dicono a Roma. I giornali stamattina parlano di vittoria della destra e sconfitta della sinistra, ed entrambi trovano spiegazioni estemporanee come l’apologo di Fedez a Sanremo e lo scontro deleterio in casa PD tra Letta e Bonaccini. Nessuno o quasi si sofferma sull’unico dato realmente importante. Per usare una terminologia che in questi giorni va di moda, lo share elettorale è a minimi storici. 37% Roma, 41% Milano, mai la democrazia è scesa così in basso.

Il romano ed il milanese devono aver pensato in massa che votare serve a ciò di cui parlava Mark Twain. A parte l’eventualità di ritrovarsi in coda al seggio dietro a qualche animale selvatico, contro le elezioni amministrative ormai parlano decenni di malgoverno bypartisan. Problemi mai risolti, ormai incancreniti e ingigantiti dalle dimensioni di due hinterland che da soli ospitano un terzo della popolazione italiana.

Cittadini di un’Italia che non ne può più, che di Fontana e Rocca vincitori non gliene po’ frega’ de meno, come dicono sempre a Roma. Tanto sono uguali a chi c’era prima e a chi ci sarà dopo, e faranno disastri  come sempre, o se va bene anche soltanto niente. Quando il ritornello diventa questo, per la democrazia suona a morto.

Del resto, che appeal possono avere un centrodestra che per due terzi riesce a non vincere pur nella vittoria (vince solo Giorgia Meloni, a cui la gente accorda ancora un credito da luna di miele piuttosto che la consapevolezza degli scarsi risultati finora portati a casa) o un centrosinistra che è ridotto ad una arena di nullità (meglio l’intellettuale restituitoci dalla Sorbona o l’ennesimo apparatchick proposto dal vivaio emiliano-romagnolo allo zoccolo sempre meno duro?) tale che avrebbe sconcertato perfino Mark Twain?

Non c’hanno capito niente nessuno, a Roma, a Milano e in ogni nostro dove. Se continua così, queste elezioni sono state le ultime.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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