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RFK il fratellino, un altro caso ancora aperto

Robert Francis Kennedy

Mezzanotte era passata da un quarto d’ora allorché il senatore Robert Francis Kennedy attraversò le cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles dove aveva appena concluso i festeggiamenti per la sua vittoria nelle primarie della California. Il 1968 era anno di elezioni presidenziali, la California era uno stato chiave per la scelta del candidato che avrebbe dovuto sfidare il repubblicano Richard M. Nixon nella corsa alla Casa Bianca.

Come suo fratello John otto anni prima, anche Robert sembrava un predestinato in quella contesa, e Nixon destinato a fare per la seconda volta la figura del perdente, della vittima sacrificale al cospetto di un altro rampollo Kennedy, la famiglia reale della repubblica americana, il mito della Nuova Frontiera che ritornava dopo la tragedia di Dallas, Camelot che riapriva le sue porte dorate per il ritorno del nuovo re, il fratello del re detronizzato.

La California aveva votato e aveva stabilito questo. RFK, come JFK otto anni prima, era il candidato democratico per l’election day del novembre successivo. I Kennedy avevano raccolto lo scettro insanguinato di John e stavano mandando Bob a riprendersi la Casa Bianca. A chiudere il cerchio di sangue apertosi a Dallas in un altro novembre di cinque anni prima, ed insieme il terribile decennio in cui il sogno americano si era rinnovato e tuttavia l’America rischiava di perdere se stessa, gli anni Sessanta.

Festeggiamenti per la vittoria di RFK nelle primarie a Philadelphia

Questo festeggiavano i Democratici nella sala da ballo dell’Ambassador di Los Angeles quella notte, ed insieme a loro festeggiava una bella fetta di America. L’esito dell’elezione del 37° Presidente degli Stati Uniti d’America sembrava scontato, non si può andare contro un mito come quello rappresentato dalla famiglia Kennedy, e probabilmente quella sera Richard Nixon vedeva materializzarsi nuovamente vecchi incubi, presagi di una nuova sconfitta. E con lui, purtroppo, vivevano gli stessi incubi tutte quelle forze oscure che avevano segnato a Dallas il destino del fratello maggiore di Bobby.

Quell’uscita attraverso le cucine dell’Ambassador, ormai popolata non più da camerieri e cuochi ma da giornalisti e teleoperatori al seguito del candidato vincente, era intesa come la via più sicura per riportarlo al suo quartier generale, via dai festeggiamenti, via dalla folla che aveva dimostrato più di una volta di poter diventare pazza, via da un destino che poteva essere nuovamente in agguato, per privare mamma Rose di un altro dei suoi figli prediletti (Bob era il settimo, di otto anni più giovane di John). Così era stato deciso dagli agenti di scorta, e sembrava la cosa migliore.

Il destino di Bobby, e con lui una volta di più dell’America, era in attesa proprio lì, e quella scelta l’aveva probabilmente e scientemente favorito. Come in un film già visto, Sirhan Bishara Sihran, un americano di origine giordana, si parò davanti al candidato presidente, così come Jack Ruby si era parato davanti a Lee Harvey Oswald nel sotterraneo della prigione di Dallas, dove era detenuto con l’accusa di aver ucciso il fratello di Bobby, il Presidente. Come in un film già visto, sembrò che fossero i colpi sparati da Sirhan B. Sirhan a troncare la vita di colui che avrebbe potuto di lì a poco diventare a sua volta Presidente. Come Lee H. Oswald, Sirhan B. Sirhan si prese tutta la colpa di quel nuovo omicidio politico, e le istituzioni americane sembrarono credergli in tutto e per tutto con estrema rapidità e facilità

Il giordano, il cui nome era già apparso a proposito della misteriosa (a tutt’oggi) sparizione del sindacalista Jimmy Hoffa, sembrò emergere come un soggetto che aveva tutte le motivazioni possibili per fare ciò che aveva fatto dalle indagini successive a quella notte in cui gli otto colpi del caricatore del revolver da poco prezzo con cui l’attentatore si era presentato all’appuntamento con la storia misero fuori gioco Robert Kennedy e ferirono gravemente altri due presenti.

Come era successo ad Oswald, l’F.B.I. trovò nella sua abitazione materiale fin troppo esauriente per dimostrare che Sirhan odiava Kennedy e che stava preparando il suo attentato. Il giorno prescelto, il 5 giugno, era il primo anniversario della Guerra dei Sei Giorni con cui Israele aveva risposto alla terza aggressione dei paesi arabi circostanti annettendosi una parte dei loro territori, tra cui una porzione di Giordania. Sirhan era il vendicatore dei palestinesi oppressi, insomma. Kennedy, dichiarando pubblicamente il suo sostegno ad Israele come futuro Presidente, aveva firmato la propria condanna a morte.

Anche le indagini successive furono un film già visto. Peccato che, come già successo per l’attentato imputato ad Oswald cinque anni prima, ci fossero troppe cose che non tornavano. Anzitutto la documentazione di Sirhan, che sembrava creata ad arte o comunque appariva in qualche modo preparata per i posteri. Poi le risultanze dell’autopsia. Il dottore che la eseguì al Good Samaritan Hospital di Los Angeles dove Bobby era stato trasportato ormai in fin di vita, Thomas Tsunetomi Noguchi, era il medico legale della Contea e come ha raccontato nel suo libro di memorie – Il cadavere, interrogato, rispose – eseguì su di lui una autopsia altrettanto scrupolosa di quella che era stata eseguita a Dallas cinque anni prima sul fratello, ed altrettanto disattesa dalle indagini ufficiali.

Bob e John Kennedy

Di tutti i colpi ricevuti, quello che si era rivelato letale per il senatore Kennedy era stato diretto alla sua testa all’altezza della tempia destra, ed il foro d’entrata era incompatibile con la posizione di Sirhan, che l’aveva affrontato standogli davanti. Quel colpo, quello mortale, doveva essergli stato sparato necessariamente da qualcuno che gli stava di fianco, posizione occupata dalle sue guardie del corpo.

Non solo. Il caricatore di Sirhan aveva, come detto, otto colpi, che furono sparati tutti. Ma la ricostruzione audio del filmato dell’attentato presentava 13 tracce sonore. I colpi sparati erano 5 in più di quello che era stato riportato nel verbale delle indagini, e di quelli che Sirhan poteva avere sparato.

E’ probabile che l’immigrato giordano fosse dunque uno specchietto per le allodole, come Lee Harvey Oswald cinque anni prima. Colui che doveva attirare su di sé l’attenzione dei presenti e di coloro che successivamente avrebbero condotto le indagini, permettendo al vero attentatore, al vero omicida di colpire letalmente. Un altro film già visto, senza finale convincente.

JFK è un caso ancora aperto, come ci ha mostrato Oliver Stone diversi anni fa. RFK lo è altrettanto. I documenti relativi all’indagine sono stati quasi tutti distrutti, le incongruenze palesi nelle indagini passate sotto silenzio. Bobby, le cui ultime parole in questa vita erano state «E gli altri? Come stanno gli altri?», riposa ad Arlington a poca distanza da John e Jackie, e l’America che tutti loro avevano fatto sognare da tempo si è rassegnata a non conoscere mai la ragione vera dei suoi incubi, della perdita della propria innocenza.

Robert Kennedy era forse meno carismatico del fratello John Fitzgerald, ma era forse più sistematico, ed altrettanto determinato se non di più nella conduzione delle battaglie per i diritti civili, la lotta alla criminalità organizzata, la messa in discussione di quella china inarrestabile che sembrava allora la Guerra del Vietnam. Robert Kennedy aveva gli stessi nemici del fratello maggiore, e nei cinque anni di vita in cui gli era sopravvissuto forse se n’era fatto addirittura qualcuno in più.

Con la moglie Ethel Skakel e gli undici figli

Erano in molti a sognare che la Nuova Frontiera riprendesse a realizzare la propria mitologia in quei giorni di giugno in cui il fratellino si guadagnò la propria investitura a candidato presidente.

Erano quanti bastavano, e nei posti chiave del potere, quanti desideravano ed avevano la capacità di far sì che un altro Presidente Kennedy non si impadronisse a nessun costo della Casa Bianca, della stanza dei bottoni, delle chiavi del destino di un paese che era già ad un passo dal realizzare compiutamente la propria Costituzione, e dare un senso del tutto nuovo ad un secolo che già veniva chiamato americano.

Uno di loro attendeva in agguato nelle cucine dell’Hotel Ambassador l’uomo che avrebbe dovuto proteggere, insieme ai voti di milioni di connazionali. Stavolta non sarebbe stato Richard Nixon a rimanere in terra, sconfitto. Non ne avrebbe avuto il tempo. La Guerra del Vietnam sarebbe proseguita fino al momento in cui lo stesso Nixon, eletto poi al posto di Bobby da un paese che ne aveva abbastanza di tragedie ed aveva voglia di normalità, avrebbe dovuto porvi fine, per limitare la catastrofe e non essere più costretto a vedere i propri ragazzi tornare a casa nei sacchi neri. I diritti civili avrebbero conosciuto una breve – con il senno di poi – pausa, e chi aveva lottato per essi avrebbe dovuto per il momento appendere il ritratto di Bobby accanto a quello di Martin Luther King e Malcom X, mentre la questione razziale passava in gestione alle Pantere Nere di Angela Davis ed all’F.B.I. del vecchio Hoover. La criminalità organizzata avrebbe continuato ad organizzarsi, di qua e di là dell’Atlantico.

Ed Arlington avrebbe accolto un altro eroe americano, pianto non solo da Mamma Rose che aveva perso il terzo figlio dopo l’eroe di guerra Joe e l’eroe della Casa Bianca John. E che di lì a poco avrebbe detto addio anche al marito, il patriarca Joseph, da otto anni menomato da un ictus e destinato a seguire il figlio Robert nella tomba a poco più di un anno di distanza.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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