Era un artista che per dar vita alla sua arte usava uno strumento tipico del mondo moderno, la macchina fotografica. Endre Erno Friedmann era nato in Ungheria il 22 ottobre 1913 e aveva dovuto abbandonarla ancora adolescente perché le sue idee filocomuniste e le origini ebraiche l’avevano reso inviso al governo di estrema destra insediatosi in quel paese dopo la Prima Guerra Mondiale. Emigrato in Germania e da qui dopo l’avvento del Nazismo prima in Francia e poi negli Stati Uniti, aveva incontrato dapprima la fotografia e quindi adottato il nome d’arte con cui sarebbe diventato famoso in tutto il mondo in segno di omaggio al suo regista cinematografico preferito, Frank Capra.
Come Robert Capa, divenne ben presto famoso per i suoi reportage fotografici dai luoghi del mondo dove si faceva la storia, negli anni terribili in cui i dittatori la scrivevano con il sangue di milioni di persone. Nel 1936 la storia si faceva nella Spagna sconvolta dalla Guerra Civile scoppiata per la sollevazione di Francisco Franco contro il governo del Fronte Popolare di sinistra. Con le sue foto riuscì a trasmettere al mondo intero l’esatta dimensione e la profonda emozione di quanto stava avvenendo come pochi reportage scritti furono in grado di fare.
La foto del miliziano colpito a morte dai franchisti divenne l’emblema della Guerra di Spagna al pari di Guernica di Pablo Picasso o di Per chi suona la campana di Hernest Hemingway. Alla fine di quella guerra, la Spagna era passata con Franco vittorioso nel campo delle dittature, Capa invece passò negli Stati Uniti in cerca di una sopravvivenza che nemmeno la sua fama mondiale in Europa poteva più assicurargli.
Nel luglio 1943 Robert Capa era in Sicilia a documentare per la rivista Life lo sbarco anglo-americano che mise l’Italia fuori dalla guerra. A Palermo, avrebbe raccontato, «lungo il percorso verso il centro della città la strada era fiancheggiata da decine di migliaia di siciliani in delirio che agitavano fazzoletti bianchi e bandiere americane fatte in casa con poche stelle e troppe strisce. Avevano tutti un cugino a Brook-a-lee. Ero stato all’unanimità riconosciuto come siciliano dalla folla in festa».
Quasi un anno dopo, il 6 giugno 1944 era ad Omaha Beach nella prima ondata verso la testa di sbarco più sanguinosa di tutta l’Operazione Overlord, lo Sbarco in Normandia. Furono poche le sue foto sopravvissute a quella giornata terribile e decisiva, ma documentano efficacemente tutta la drammaticità del D-Day. Era un temerario per quanto era grande come fotografo Robert Capa, e al momento di attraversare il Reno per lanciare l’assalto finale alla Germania l’esercito americano lo annoverò fra i paracadutisti che si lanciarono avanti alla fanteria. Invece del Garand M1 d’ordinanza lui aveva la sua fotocamera 35 mm con cui produsse l’ennesimo reportage d’eccezione.
A un uomo così non poteva bastare dopo la guerra di aprire a Parigi l’agenzia fotografica più famosa del mondo, la Cooperativa Magnum, insieme a Henri Cartier-Bresson e altri mostri sacri di quell’arte. Né di essere arruolato nientemeno che da Alfred Hitchcock o John Houston come fotografo di scena in alcuni dei loro più celebri capolavori. Robert Capa andava dove c’era pericolo, perché era lì che si scriveva la storia.
Quando scoppiò la Prima Guerra di Indocina, quella al termine della quale il Vietnam ebbe l’indipendenza dalla Francia, Capa corse laggiù, aggregandosi alle truppe coloniali francesi. La fortuna gli presentò il conto il 25 maggio 1954 a Thai Bihn nei pressi di Hanoi, allorché mise il piede su una mina antiuomo. La Francia aveva già perso ormai la sua colonia dopo la rovinosa sconfitta di Dien Ben Phu. Il mondo perse il suo più grande artista della macchina fotografica.
«Capa sapeva che cosa cercare e che cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino»
(John Steinbeck).
«Uno dei desideri più forti del fotografo di guerra è quello di rimanere disoccupato. Non è sempre facile stare da un lato e non essere capace di fare altro che documentare la sofferenza intorno a sé»
(Robert Capa).
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