Firenze non ha mai pianto i suoi grandi artisti, quando la sorte li ha portati altrove o sono passati a miglior vita, come si suol dire. Non li ha mai pianti principalmente perché non ha mai avuto bisogno di farlo, tanta è sempre stata l’abbondanza con cui il genio è stato dispensato a quella parte della razza umana vissuta sulle rive dell’Arno, fin da quei tempi che siamo abituati a conoscere sotto il nome di Rinascimento.
In ogni campo artistico, il posto di ogni gigante che se ne andava veniva subito preso da chi era in grado di non farlo rimpiangere. Morto Filippo Brunelleschi, poco dopo nasceva Michelangelo Buonarroti. Morto costui, veniva al mondo Galileo Galilei. Da Dante Alighieri a Raffaello Sanzio, da Giotto di Bondone a Sandro Botticelli, da Lorenzo Ghiberti a Leonardo Da Vinci, anche a volere non c’era tempo per piangere per chi passava a miglior vita, o ad allietare altre corti ed altre Signorie, ma solo per disporsi ad ammirare nuovi capolavori che non sfiguravano a confronto con i vecchi, già immortali ai loro tempi. Fino al 1990.
Ogni epoca ha la sua arte, nel ventesimo secolo a quelle tradizionali incarnate dalle nove Muse se n’è aggiunta una decima, il gioco del calcio. Che per la verità ebbe anch’esso i suoi natali nel capoluogo toscano. Narrano le cronache che la prima partita di calcio di cui si ha notizia nella storia moderna fu giocata il 17 febbraio 1530 in Piazza Santa Croce a Firenze, da 54 nobili fiorentini che si affrontarono con l’intento dichiarato di inviare un messaggio sprezzante alle truppe imperiali di Carlo V, le quali avevano cinto d’assedio la città per compiacere il papa Clemente VII – che da buon Medici desiderava il suo ritorno sotto la signoria della sua famiglia – e completare nello stesso tempo l’asservimento della penisola italiana al dominio spagnolo.
Quando il calcio fu brevettato in età contemporanea dai suoi re-inventori inglesi, anche Firenze ebbe la sua squadra cittadina, ma pretese – e spesso ottenne – che tra le sue fila militasse almeno un grande artista. Che non disegnava figure divine con il pennello o lo scalpello, ma piuttosto con i piedi. Da Julinho a De Sisti fino ad Antognoni, la maglia viola con il numero dieci era diventata un po’ come la corona d’alloro in età rinascimentale, il simbolo che spettava di diritto e nello stesso tempo identificava il genio, l’artista. E se chiedete ad un fiorentino chi tra Michelangelo ed Antognoni abbia maggiormente illustrato il nome di Firenze, aspettatevi una risposta che potrebbe sorprendervi. Ma che non sorprenderebbe affatto alcun fiorentino purosangue.
Quando la legge di natura volse al termine la carriera dell’unico 10, di quell’artista incommensurabile che la gente aveva preso a chiamare semplicemente col nome di Antonio, Firenze era pronta a soffrire di un vuoto incolmabile, senza sapere che in quel laboratorio che era allora la Fiorentina già si esercitava con i rudimenti dell’arte un altro genio, che almeno nelle intenzioni di un destino inizialmente benevolo non avrebbe dovuto far rimpiangere il predecessore.
Roberto Baggio era nato nel profondo nord-est, a Caldogno in provincia di Vicenza, e nel mitico Lanerossi si era messo in mostra come giovane promessa del calcio italiano. Qui fu preso, nella primavera del 1985, dalla Fiorentina di Pontello, preoccupata di garantirsi una successione più adeguata possibile al ragazzo che giocava guardando le stelle, alle prese con la difficile riabilitazione successiva al secondo grave infortunio e ormai destinato agli ultimi calci al pallone.
Due giorni dopo la firma del contratto, il ragazzino che con i suoi 12 gol aveva portato il Vicenza di Bruno Giorgi (altra futura conoscenza dei tifosi viola) alla promozione in serie B si infortunò anch’egli gravemente all’ultima di campionato. Legamento crociato anteriore e menisco. La Fiorentina poteva recedere dall’acquisto, ma decise di essere audace, e la fortuna per una volta non si smentì, aiutando lei e soprattutto Robertino, che fu operato con successo dal prof. Bosquet a Saint Etienne e poi guidato nella riabilitazione dal mago Carlo Vittori, il trainer di Mennea, Fiasconaro e tanti altri campioni italiani di Atletica.
Sopravvissuto ad un secondo infortunio altrettanto grave, stesso ginocchio stesso problema, finalmente Roberto Baggio approdò in prima squadra quasi due anni dopo il primo incidente. Antognoni partiva per l’esilio di Losanna, mentre Roberto segnava il suo primo gol in viola su punizione, a quel Napoli dove intanto era approdato un certo Diego Armando Maradona, il re degli artisti della pelota.
Da quel momento, iniziò una storia che a Firenze conoscono bene tutti coloro che avevano l’età della ragione alla fine degli anni ottanta. Per tre anni, la squadra viola fu soprattutto Roberto Baggio, così come nei dieci precedenti era stata soprattutto Giancarlo Antognoni. Dal gol con cui sbancò San Siro e piegò il Milan degli olandesi nel settembre 1987 a quello con cui nel 1990 rubò il palcoscenico al San Paolo di Napoli nientemeno che al pibe de oro Maradona, ricevendone i complimenti sinceri, a Firenze ebbe luogo l’epopea di Baggino, come veniva chiamato per distinguerlo dall’omonimo Dino, compagno di quella Nazionale in cui era stato fatto nel frattempo esordire dal selezionatore Azeglio Vicini. Contro l’Olanda, così come 14 anni prima Giancarlo Antognoni, i corsi e ricorsi della storia….
Sembrava l’inizio di un’altra grande leggenda, mentre per le strade di Firenze si cantava il tormentone Non è un miraggio, è Roberto Baggio. Il divin codino, come aveva preso a chiamarlo una tifoseria sempre più estasiata, aveva fatto sfracelli in coppia con il povero Stefano Borgonovo, nella indimenticata e indimenticabile B&B. Poi aveva trascinato i compagni, agli ordini del vecchio mister Bruno Giorgi, alla finale di Coppa UEFA del maggio 1990. La Fiorentina non giocava una finale europea dal 1961, e in più aveva l’occasione di vendicarsi della rivale di sempre, quella Juventus con cui il conto era aperto almeno dal 1982.
C’era chi parlava, è vero, di sirene bianconere che cercavano di irretire una società viola la cui proprietà veniva data in fase crepuscolare, in calo di entusiasmo e di motivazioni. Anche questo sembrava un film già visto, fino al 1978 la corte di Agnelli ai proprietari del cartellino di Antognoni era stata serrata, quanto inutile. La storia sembrava ripetersi. Ma Il Pontello del 1990 non era l’Ugolini del 1978, e le commesse Fiat erano irresistibili per una famiglia disamorata del calcio e con un ritorno di fiamma per la grande edilizia.
Quando i tifosi viola partirono per Torino, finale di andata della Coppa UEFA, non si aspettavano un primo tempo in cui la loro squadra dominò e in cui fu proprio Baggio a vanificare tutto sbagliando diversi gol, solo davanti al portiere. Finì male, 3-1 per la Juve tra le polemiche e lo sbalordimento per la prestazione di un Codino stranamente e insolitamente stralunato, come se avesse un peso insopportabile sullo stomaco. Quale fosse questo peso, lo annunciò Ranieri Pontello dopo la finale di ritorno, uno scialbo e beffardo 0-0 in quel di Avellino. L’ultima partita di Robertino in viola, prima del suo passaggio in bianconero.
Alla conferenza stampa di presentazione, ci fu il gran rifiuto della sciarpa bianconera da parte del giocatore, che sembrava un ragazzino portato via, strappato alla famiglia. Nel frattempo a Firenze era scoppiato il finimondo. Fumogeni e cariche della polizia in Piazza Savonarola, davanti e attorno alla sede della Fiorentina. Contestazioni anche a Coverciano, dove si riuniva la Nazionale – compreso Baggio – in vista di Italia 90. Pontello costretto a vendere la società a Cecchi Gori dai tumulti di piazza, e costretto per lungo tempo a mantenere una scorta sotto casa. Stavolta Firenze piangeva, perché sapeva che se n’era andato l’ultimo grande artista, e il suo posto non sarebbe stato preso da nessun altro. Non solo, ma se n’era andato per accasarsi alla corte del nemico più acerrimo, più odiato.
Le giocate di Baggio a Italia 90 passarono inosservate nella città che l’aveva idolatrato fino a un mese prima del Mondiale. La tifoseria viola si era divisa in due, tra quanti lo consideravano un traditore che a differenza di Antognoni aveva venduto l’anima insieme alla maglia e quanti invece lo assolvevano dando la colpa di tutto a Pontello, il vero traditore di Firenze, che aveva posto il numero dieci di fronte a una cessione inevitabile, in un’epoca in cui la legge Bosman non era ancora entrata in vigore.
La questione in realtà aveva poca importanza. La storia di Roberto Baggio per i fiorentini si concluse il 6 aprile 1991, quando tornò a Firenze per la prima volta con la sua nuova squadra. Sotto la Curva Fiesole addobbata nella scenografia irripetibile del landscape fiorentino (studiata per fargli sentire cosa aveva perso, e per far sentire a chi l’aveva portato via cosa non aveva e non avrebbe avuto mai), Baggio e la Juventus furono le vittime sacrificali di una vendetta annunciata. Diego Fuser segnò su punizione il vantaggio viola, De Agostini sbagliò il pareggio bianconero tirando il rigore – che Robertino non si sentì di calciare – in bocca a Mareggini. I bianconeri se ne andarono con la coda tra le gambe, dopo aver offerto alla città uno spettacolo impagabile: Baggio fu sostituito a metà ripresa, e mentre si recava negli spogliatoi qualcuno dalla tribuna gli gettò una sciarpa viola, che lui prese e si mise al collo.
Con questo secondo rito della sciarpa finì la storia di Baggio a Firenze e per Firenze. La carriera del fantasista si sviluppò a grandi livelli e in varie squadre, fino a portarlo ad essere inserito ai primi posti della speciale graduatoria FIFA dei più grandi calciatori del XX° secolo. Dallo splendido e sfortunato Mondiale USA 94 finito con il rigore decisivo per il titolo calciato al cielo a causa di una gamba malconcia, fino alle frasi sprezzanti con cui un delusissimo Avvocato Agnelli stigmatizzava le sue prestazioni quasi mai alla sua altezza in bianconero, chiamandolo coniglio bagnato e definendolo non un vero e completo numero dieci ma piuttosto un 9 e mezzo, la carriera di Baggio in bianconero si concluse allorché colui che era stato definito Raffaello fu scalzato da Pinturicchio Del Piero.
Ma a Firenze non importava più. La vendetta c’era già stata, nuovi eroi erano arrivati nel frattempo a rinnovare il tormento e l’estasi, per dirla con quel Michelangelo di cui Roberto Baggio era stato l’ultimo epigono. Nuovi eroi che comunque vennero da allora vissuti in modo molto diverso da come era stato vissuto lui. Quando andò via Batistuta nessuno si strappò i capelli come per Baggio, a Firenze non volò una mosca. Il Rinascimento era ormai finito, da dieci anni, da quel drammatico mese di maggio del 1990.
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