Il 3 aprile 1660 nasceva a Stoke Newington, un sobborgo di Londra, Daniel Defoe. Il nome originario della famiglia era Foe, ma il rampollo divenuto grande e famoso lo avrebbe modificato aggiungendovi la particella nobiliare De, all’uso francese, con ciò probabilmente volendosi dare una patente di nobiltà che avrebbe contrastato curiosamente con la sua vita, trascorsa interamente all’insegna del radicalismo liberale.
Proveniente da una famiglia di mercanti appartenenti ad una di quelle sette che stavano trasformando il protestantesimo inglese da un affare di stato in una rivoluzione di popolo, i presbiteriani, Daniel era in carcere a Newgate quando diventò Defoe. Era già famoso per essere stato uno dei più accesi sostenitori della lotta agli Stuart ed alla restaurazione cattolica, dapprima all’epoca dello sfortunato tentativo del Duca di Monmouth e poi di quello molto più efficace di Guglielmo d’Orange.
Lo stadtholder delle Province Unite olandesi, eroe della causa protestante in Europa, aveva sposato Maria, la prima figlia di Giacomo II Stuart, il re che sognava di riportare indietro le lancette dell’orologio in Inghilterra fino a prima di Enrico VIII. Nel 1688 toccò al genero olandese fermarlo, sbarcando a Torbay nel Devon (per la seconda e ultima volta un conquistatore di nome Guglielmo portava vittoriosamente un esercito continentale sull’isola, dopo il duca normanno che era sbarcato ad Hastings nel 1066) e dando il via alla Gloriosa Rivoluzione che avrebbe fatto dell’Inghilterra la campionessa del protestantesimo e la potenza egemone nel mondo per i successivi tre secoli.
A quel punto, Daniel Defoe aveva già realizzato di avere tra i tanti talenti quello della scrittura e della pubblicistica. Il momento era quello giusto, perché il giornalismo inglese (e moderno, possiamo dire) era nato poco dopo di lui. La fondazione della London Gazette, il più antico periodico della storia, risaliva al 7 novembre 1665.
Defoe si fece un nome sostenendo regolarmente i protestanti più radicali, e finì per pagare quel suo radicalismo alla morte di Guglielmo d’Orange, divenuto nel frattempo re Guglielmo III e deceduto nel 1702. Per breve tempo parve che il brillante pubblicista – che aveva tra l’altro propagandato per primo idee destinate ad avere un futuro a dir poco brillante come la creazione di una banca centrale (divenuta realtà nel 1694 con la Banca d’Inghilterra), di un sistema pensionistico, delle società di assicurazioni -fosse di nuovo in disgrazia.
Il campione del radicalismo entrò infatti nel mirino della Chiesa d’Inghilterra per la sua difesa delle sette dissenzienti, i cosiddetti Non Conformisti che dai tempi di Cromwell non accettavano la sottomissione alla suddetta Chiesa, e finì nel carcere di Newgate. Ma la prigionia fu la causa della sua fortuna, dandogli il tempo di produrre le sue prime opere letterarie come quel Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders che rappresenta il prototipo del romanzo moderno, di cui Defoe divenne il capostipite. E di mettere a punto e raffinare la sua tecnica giornalistica che avrebbe riversato – una volta liberato a furor di popolo dal carcere – nel periodico The Review, destinato ad entrare nella storia del giornalismo inglese.
Dopo aver lasciato il segno anche nella storia britannica, lavorando a quel Union Act che nel 1707 avrebbe sancito la storica fusione tra i parlamenti inglese e scozzese (mettendo fine ad una sanguinosa rivalità che durava dai tempi di Braveheart, nel tredicesimo secolo), all’apice della sua popolarità fu costretto a interrompere la sua attività di giornalista poiché la sua partecipazione in qualità di infiltrato governativo in un periodico giacobita (cioé sostenitore della causa dell’ultimo erede Stuart, Giacomo Edoardo detto il Vecchio Pretendente) venne clamorosamente scoperta. Il grande giornalista non era una grande spia, e lo scandalo gli tolse fatalmente credibilità.
Ma era e restava un grande scrittore, e di lì a poco (1719) avrebbe pubblicato il suo capolavoro, destinato a diventare il primo best seller del romanzo moderno. La vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, marinaio è un libro che abbiamo letto tutti da ragazzi, e che ci ha immancabilmente affascinati, malgrado sia scritto nella non sempre facile lingua seicentesca e secondo la tecnica del giornale di bordo in voga all’epoca per dare maggior verosimiglianza al racconto.
Ispirandosi alla vicenda realmente accaduta del marinaio scozzese Alexander Selkirk, abbandonato dal capitano della nave su cui era imbarcato in un’isola dell’arcipelago cileno delle Juan Fernandez e salvato dopo quattro anni da una nave corsara inglese, Daniel Defoe immaginò che il suo protagonista – il marinaio tedesco Robinson Kroetznauer, emigrato in Inghilterra e naturalizzato Crusoe – fosse l’unico superstite di un naufragio al largo delle coste venezuelane.
Personaggio controverso tipico della sua epoca, imbarcato su una nave negriera come se fosse un mercantile qualsiasi e tuttavia prototipo dell’uomo libero e dello spirito indomito che il modello culturale e sociale britannico iniziava a propagandare nel mondo moderno, il Robinson Crusoe che si risveglia sull’isola deserta il 30 settembre 1659 (e da quella data inizia a redigere il suo giornale di bordo) è appunto l’uomo che non si perde d’animo pur trovandosi catapultato indietro allo stato di natura, primigenio, selvaggio, tagliato fuori da qualsiasi possibile civiltà.
Utilizzando i resti della nave, e con l’aiuto dell’indigeno Venerdì salvato dai cannibali (Defoe è il primo a romanzare il mito del buon selvaggio creando un filone filosofico e narrativo che avrà gran fortuna, da Jean Jacques Rousseau a Edgar Rice Burroughs), Robinson crea una nuova civiltà addomesticando l’isola deserta, la natura ribelle e selvaggia e tutto quanto di ostile il destino ha messo sulla sua strada. Finché, più di 25 anni dopo il naufragio, viene recuperato da una nave inglese e riportato finalmente nella Madrepatria, nella quale si reintegra subito come se nulla fosse.
Tra mito e verità storica, tra ingenuità protomoderna e realismo, tra pretesa scientifica e fiction (quella di Defoe era l’epoca in cui erano di gran moda i resoconti di viaggio e in cui l’homo britannicus iniziava a costruire l’epopea imperiale che l’avrebbe reso padrone del mondo), il romanzo di Daniel Defoe si pose a buon diritto a capostipite di un genere letterario, il romanzo d’avventura, che prima di lui non esisteva e che dopo di lui avrebbe risposto a canoni divenuti classici. E Robinson sarebbe stato il prototipo indiscusso non soltanto di un personaggio letterario e cinematografico ben preciso e di successo, ma anche di un tipo d’uomo, di un atteggiamento verso la vita ed il mondo circostante per ritrovare un esempio di pari forza del quale bisogna risalire all’Ulisse di Omero. E che al pari dell’eroe di Itaca avrebbe caratterizzato molto di più della sua epoca, diventando addirittura un archetipo per quelle successive.
Quando morì nel 1731 a Moorfields (sobborgo londinese che a quell’epoca poteva considerarsi ancora un’area verde, uno spicchio nel cuore della City di quella natura ancora incontaminata in cui aveva ambientato le avventure del suo Robinson), Daniel Defoe era ormai un autore famoso, la cui produzione letteraria si era arricchita di ben quattordici opere, due delle quali costituivano il seguito delle avventure di The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe of York, Mariner, il libro destinato ad essere il fedele amico dell’infanzia di tante generazioni di lettori a venire.
E non solo dell’infanzia. Se Shakespeare ha creato e dato nobiltà all’uomo inglese, se Francis Drake, Oliver Cromwell e Guglielmo d’Orange l’hanno consacrato come libero e orgogliosamente protestante, è stato Daniel Defoe a renderlo immortale – e invincibile – nella letteratura moderna.
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