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Roma capoccia

La conquista di Roma e la sua elezione a capitale dell’Italia unita era stato un mito coltivato da coloro che in un modo o nell’altro si sentivano italiani per tutto il lungo periodo dei secoli bui e di quelli d’oro e poi della decadenza fino alla Rivoluzione Francese ed al Risorgimento.

L’Italia era un’entità politica che non era mai esistita, a meno di non voler considerare Italia quella parte della penisola così chiamata dagli antichi Romani, delimitata a nord dal fiume Rubicone che un giorno Giulio Cesare oltrepassò in armi e a sud da Scilla e Cariddi, e dal Mare che sempre gli stessi Romani anichi chiamavano Nostrum.

Era esistita una espressione geografica denominata Italia, quella sì, e Klemens  von Metternich, cancelliere austriaco della Restaurazione post-napoleonica, non aveva mancato di rimarcarlo ironicamente, sbeffeggiando le aspirazioni nazionali unitarie dei patrioti.

Italiani, insomma, politicamente non eravamo mai stati. Ma in molti si erano sentiti tali, anche se limitatamente alle classi più agiate, più istruite, più imbevute di un Romanticismo che allora faceva premio su tante altre considerazioni. Non certo però sulla fame di un popolo che allora come prima e dopo era impegnato in una lotta per la sopravvivenza che lasciava poco spazio agli ideali. Di Francia o di Spagna, il problema di quei secoli era prima di tutto mangiare.

Probabilmente, siamo una nazione unita, per quanto negli ultimi decenni a sovranità ancora più limitata che in passato, solo perché a Gran Bretagna e Francia, le nazioni liberali, alla metà dell’Ottocento conveniva ormai che la nostra penisola fosse sottratta al controllo austriaco ed unificata economicamente, prima ancora che politicamente. Era l’ora che si costruissero ferrovie e si abolissero i dazi, e che la Carboneria italiana potesse tornare ad essere ciò che era in tutta Europa: Massoneria.

Probabilmente, siamo una nazione unita perché il visionario Garibaldi non sapeva nulla degli accordi tra Cavour e Napoleone III, o se sapeva qualcosa era determinato a far sì che non si realizzassero, che con i suoi Mille in camicia rossa fosse possibile andare molto più in là, consegnando a Teano al nuovo Re d’Italia una nazione intera, e non tre pezzi separati ancora tra di sé.

Quello che è certo, è che quando a Torino si riunì il primo Parlamento dell’Italia riunificata, nessuno poteva ancora dirsi soddisfatto. Fu lo stesso Conte di Cavour, padre di quella patria ancora mutilata, a dettare il compito alla generazione successiva. Lui era destinato a fermarsi sul confine della Terra promessa, come Mosè. A quelli che sarebbero venuti dopo, prescrisse chiaramente: «La nostra stella, o Signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la città eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico».

Malgrado il recupero successivo dei resti della gloriosa Repubblica di Venezia ed in aggiunta alla necessità di conquistare le terre irredente, Trento e Trieste, il sentimento di tutti era che non aveva e non poteva avere senso uno Stato italiano unitario se la sua capitale non fosse stata insediata nella città la cui storia offuscava quella di ogni altra città o nazione del mondo. Una storia talmente importante e gloriosa da meritarle la qualifica di Città Eterna. Quella, e solo quella, era la nostra capitale.

Per questo appena possibile la capitale provvisoria fu trasferita a Firenze, a 300 chilometri dall’obbiettivo finale, verso il quale poter balzare non appena se ne fosse presentata l’occasione. Il guaio era, o sembrava essere, che Roma era da millecinquecento anni anche la capitale dello Stato della Chiesa. Contro il Vicario di Dio in Terra nessuno aveva osato alzare le mani nei secoli precedenti, se non qualche occasionale esercito di razziatori Vandali o Lanzichenecchi. Fino al 1870, incredibilmente, furono le armi francesi a fare ciò per cui quelle dei mercenari svizzeri non bastavano più. Napoleone III era nato rivoluzionario e invecchiava da conservatore, in quel caso di un Ancien Regime tanto antico da aver perso la memoria e la giustificazione delle sue origini.

Ma quando i luterani Prussiani attaccarono la cattolicissima Francia per stabilire il loro impero e incoronare a spregio il loro imperatore, il Kaiser, nella Sala degli Specchi a Versailles, gli italiani seppero di non avere più ostacoli sulla strada per Roma. L’Austria, che in pochi anni era cambiata nei nostri confronti da nemica acerrima a possibile alleata, si limitò a dire: «va bene, ma fate presto».

Il 20 settembre 1870 i Bersaglieri di Raffaele Cadorna irruppero nella breccia di Porta Pia, sulla Via Nomentana, e dilagarono per le strade di Roma. Il Papa Pio IX scagliò un’anatema sul nuovo Regno, e proibì ai cattolici di partecipare alla sua vita politica. Ma un mese dopo la Città Eterna veniva annessa all’Italia con plebiscito, ed il 3 febbraio 1871 con Regio Decreto diventava la capitale del Regno.

Il resto ve lo cantano Antonello Venditti e Francesco de Gregori, in romanesco nobile. Roma capoccia. Der monno infame.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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