La gioia di Daniele De Rossi e Alessandro Florenzi dopo aver eliminato il Barcellona nei Quarti di Champion’s League
ROMA – 34 anni fa. Una vita fa. Una generazione fa. Quella che era giovane allora aspetta una rivincita di cui quella che è giovane adesso non sa o non capisce forse nemmeno la ragione. Il Fato è una divinità strana, capricciosissima. A volte si prende un tempo assurdo, a volte addirittura un’eternità, prima di ripresentare nuovamente i suoi incroci bizzarri di vicende umane, divertendosi a stare a guardare come se la cavano gli sfortunati mortali che sono soggetti a quei suoi capricci.
1984. George Orwell l’aveva immaginato come un anno sufficientemente lontano nel tempo, dal suo tempo, per ambientarvi la sua rappresentazione di un mondo ormai dominato dal Grande Fratello, la drammatica dittatura tecnologica che nella realtà attuale stiamo imponendo a noi stessi in modo decisamente più ridicolo, farsesco (basta uno smartphone ormai a fulminarci irrimediabilmente il cervello, non c’è bisogno più che si scomodino entità malvage o istituzioni deviate).
Quell’anno ormai è sufficientemente lontano dal presente per farci rimpiangere la nostra giovinezza come un’Età dell’Oro da gran tempo perduta. L’anno in cui tutto sembrava possibile, perfino che lo sport, e in particolare il calcio italiano dominassero nel mondo. A Los Angeles gli atleti azzurri si apprestavano a stabilire il record assoluto di medaglie d’oro in una competizione olimpica. A Roma, nello stadio che una volta aveva celebrato una competizione olimpica altrettanto leggendaria – quella in cui era stato stabilito tra l’altro il precedente record azzurro – e che quindi da allora si chiamava Olimpico, ci si apprestava a celebrare la finale della Coppa dei Campioni di quell’anno.
Adesso si chiama Champion’s League, nome anglicizzato in ossequio alla globalizzazione cerebrale prima ancora che economica. Quanto era più bello, evocativo, quel nome. Quanto era più bella quella Coppa, la Coppa con le Orecchie, da giocare e da conquistare. A quel torneo partecipavano solo i vincitori dei campionati nazionali. I Campioni, appunto, e basta.
L’anno prima, il 1983, in Italia aveva vinto la Roma dell’ing. Dino Viola, l’uomo che aveva rifatto grande la squadra giallorossa dopo gli anni bui di Anzalone & c. L’uomo che aveva aggiunto a vecchie glorie romaniste come Bruno Conti e Agostino Di Bartolomei nuovi eroi come Carlo Ancelotti, Roberto Pruzzo, Sebastiano Nela, Pietro Wierchowod e soprattutto il favoloso, mitico (come ogni cosa che veniva allora dal Brasile) Paulo Roberto Falcao. E che aveva chiamato a dirigere quell’orchestra prestigiosa il migliore di tutti, Nils Liedholm detto Liddas, il Barone, l’allenatore che faceva giocare da campione perfino Scarnecchia. Il mister che veniva da Milano, dove il suo Milan aveva interrotto l’egemonia di una Juventus che sembrava invincibile, quella di Giovanni Trapattoni.
Già, quella Juventus che aveva dato sette undicesimi alla Nazionale di Enzo Bearzot, quella che aveva trionfato due anni prima in Spagna, facendo del Santiago Bernabeu uno stadio italiano (pare incredibile a dirlo adesso). Il 1982 era stato l’anno della certificazione della rinascita del calcio italiano, avviata dalla notte dell’Azteca, Italia-Germania 4-3, il mundial messicano del 1970. L’Italia era infine tornata sul tetto del mondo, e le sue squadre di club avevano ripreso a vincere in Europa, dopo anni di televisione forzata e invidiosa nei confronti di Olanda, Germania, Inghilterra.
Nel 1983 la Juventus presuntuosa di Platini e Boniek si era fatta sorprendere in finale di Coppa Campioni da un Amburgo qualsiasi e da un Magath qualunque, a cui non era parso vero di poter vendicare la finale mondiale dell’anno prima. In quei giorni, la Roma conquistava il suo secondo splendido scudetto, dopo quello di Amadei & c. vinto nel 1942 sotto le bombe alleate.
Nel 1984 la marcia giallorossa in Coppa Campioni fu trionfale, come lo era stata quella in campionato l’anno prima. Goteborg, CSKA Sofia, Dinamo Berlino e Dundee United cedettero il passo ai giallorossi fino alla finale. Che per l’appunto quell’anno l’UEFA aveva assegnato da organizzare allo Stadio Olimpico di Roma.
Sembrava un segno del destino. La squadra più bella da veder giocare nella cornice casalinga dello stadio più suggestivo (allora) a due passi dalla città più bella del mondo. Una chiamata della storia a cui i giocolieri di Liedholm non potevano non rispondere. Ma il destino, quel Fato che è il più capriccioso degli Dei, si diverte sempre a scompigliare anche le storie più belle, affascinanti, dalla trama più avvincente.
Di fronte alla Roma più bella di sempre (non ce ne vogliano Luciano Spalletti, Francesco Totti, Daniele De Rossi & c., che pure ne sono stati altrettanto degni eredi) c’erano nientemeno che i Reds.
Ai ragazzi degli anni settanta non c’è bisogno di insegnare che cos’era il Liverpool allora. Se lo ricordano bene. Agli altri, venuti dopo, va spiegato che era una leggenda vivente, e giocante, del calcio. Al pari dell’Ajax di Cruyff, del Bayern di Beckenbauer, il Liverpool che era stato di Kevin Keegan, e che quell’anno era ancora di tanti altri grandi campioni inglesi, era quello che adesso sono il Real Madrid ed il Barcellona (o che almeno erano fino ad una settimana fa). Gli squadroni che scendevano in campo insieme alla storia, alla leggenda.
Al Circo Massimo tutto era pronto per una nuova grande festa, un anno dopo quella dello scudetto che aveva dato un senso aggiuntivo alle nuove notti magiche, alle estati romane, alla movida capitolina con la quale il mai abbastanza compianto assessore alla cultura Renato Nicolini aveva fatto rinascere la nostra capitale dopo il buio degli anni di piombo. Tutto era pronto, a cominciare dalle note struggenti di quel Roma, Roma, Roma che Antonello Venditti aveva regalato alla sua squadra come inno per i tempi – e le vittorie – a venire.
Ma dall’Olimpico non arrivavano buone notizie. La Roma, la maggica, non ce la faceva a passare, a sfondare. Andò sotto con Neal, pareggiò con Pruzzo, poi la lunga agonia. I Reds tenevano botta. E la tennero fino ai calci di rigore, che inaugurarono proprio quell’anno la loro funzione di nemesi del calcio italiano. Sul dischetto fatale, gli inglesi sbagliarono solo il primo con Nicol, poi Neal, Souness, Rush e Kennedy furono implacabili come quel Fato che quella sera avrebbe portato la beffa al popolo romano fin sulla soglia di casa sua. Per i giallorossi segnarono Il Dibba (che allora non era un parlamentare a Cinque Stelle, ma piuttosto il Capitano, il compianto Agostino Di Bartolomei) e Righetti. La gamba tremò invece purtroppo proprio a coloro che non ti aspettavi: Bruno Conti e Ciccio Graziani. La notte romana si riempì soltanto di silenzio. Per interrompere bruscamente – e tragicamente – il predominio inglese in Europa ci sarebbe voluto purtroppo l’Heysel, l’anno dopo ancora.
Sono passati 34 anni. Roma, e non soltanto lei, ha atteso per tutto questo tempo la possibilità di una rivincita. E’ passata una vita, anzi, più vite. All’epopea di Falcao & c. è succeduta quella di Totti & c., i giallorossi non hanno più incrociato il Liverpool, e malgrado abbiano giocato spesso da stropicciarsi gli occhi, non si sono più ripresentati all’atto finale della Coppa con le Orecchie, che nel frattempo è venuta a chiamarsi – orrendamente – Champion’s League.
E’ un altro mondo, è un altro calcio. Il Liverpool di adesso è quello in cui fa sfracelli, ma guarda un po’, Mohamed Salah, ex giallorosso in cui è difficile stabilire se sia prevalente la quota di genio o quella di sregolatezza. Per la Roma invece doveva essere un anno di rifondazione, metabolizzando l’addio di Francesco Totti e ricostruendo una squadra attorno all’ultimo legionario, Daniele De Rossi.
E invece, eccola qui, nel posto che nei pronostici di tutti doveva essere del Barcellona, di Messi & c. Aspettando il responso dell’urna di Nyon, il sorteggio per la semifinale, pensavamo: il destino è capriccioso, beffardo… stai a vedere…..
Roma-Liverpool! E come te potevi sbaja’……, avranno detto per le strade della capitale. La rivincita è arrivata. Il Circo Massimo è sempre lì, in attesa. L’Olimpico pure, con le urla strozzate in gola di 34 anni fa che aspettano di riempire nuovamente il cielo sopra Roma.
E’ cambiato er monno, hai voja…… Ma il mondo, per certe cose, è sempre lo stesso. Aspettiamo tutti questa partita da una vita. Chi c’è ancora e chi non c’è più. Dino Viola e Renato Nicolini, c’è da scommetterci, hanno già comprato il biglietto, per quella tribuna da cui seguono adesso lassù, molto più alta della Monte Mario.
‘A ‘Nello, e famolo risona’ sto Grazie Roma a squarciagola, stavolta…..
Stiamo tutti a Porta Pia, in attesa.
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