La mattina di lunedi 16 giugno Brembate, il paese del bergamasco balzato agli onori ed agli orrori delle cronache il 26 novembre 2010, giorno in cui fu uccisa la tredicenne Yara Gambirasio mentre tornava a casa dalla palestra, viene di nuovo scosso da una notizia altrettanto drammatica: il fermo della persona fortemente indiziata di essere il suo assassino.
E’ stata un’indagine durata quattro anni e condotta sul filo delle nuove tecnologie, quelle rese celebri da innumerevoli telefilm di importazione americana e rese possibili dall’esame del D.N.A., il codice genetico che ognuno di noi si porta dentro e che, al pari delle impronte digitali, e praticamente unico e irripetibile. Con una differenza rispetto alle impronte, il codice è ereditario, tali genitori tali figli.
Da tempo è noto al P.M. Letizia Ruggeri e a tutti gli investigatori che hanno fatto dell’indagine su uno dei delitti più efferati della storia della repubblica una questione – giustamente – quasi personale per assicurare il misterioso assassino alla giustizia, che costui è il figlio illegittimo di tale Giuseppe Guerinoni, autista di corriera morto nel 2009, un anno prima che il suo DNA finisse sugli slip della povera Yara.
Esclusi i figli legittimi, tutti forniti di alibi incontestabili, resta Ignoto 1, un probabile figlio naturale non riconosciuto, l’unico che può replicare il DNA dell’autista morto. Mezza Brembate, compresi gli emigrati da tempo, viene sottoposta all’esame del DNA, ma niente. L’unica che sa e potrebbe parlare è la altrettanto misteriosa amante del Guerinoni, la madre di Ignoto 1. Che si guarda bene dal venire allo scoperto finchè non ce la costringe un vecchio amico del morto, che si decide a parlare un paio di settimane fa. Da lì in poi il passo per arrivare al figliastro, Massimo Giuseppe Bossetti, il fermato di lunedi scorso, il passo è breve.
Sembra la trama di un libro di Michael Connelly o di John Grisham. Da lì in poi se fossimo negli Stati Uniti il legal thriller si svilupperebbe a ritmo serrato verso un finale logico e normalmente – conoscendo gli amici americani e soprattutto il loro sistema giudiziario – lieto (almeno per chi parteggia ancora per la giustizia). Ma siamo in Italia, e questo normalmente è il momento in cui le cose svoltano prendendo inesorabilmente la direzione di un casino inestricabile, di procedimenti giudiziari che richiedono anni e risorse per arrivare a nulla, di colpevoli su cui non c’è mai certezza, di presunti innocenti che restano tali anche dopo le sentenze, di avvocati di grido che sono gli unici veri vincitori di qualsiasi azione legale.
Un primo passo verso quella direzione lo compie subito non una autorità inquirente ma una politica. Angelino Alfano, Ministro della Giustizia, rompe subito il naturale riserbo dettato dalla prudenza degli inquirenti annunciando la cattura dell’assassino di Yara e fornendo nome, cognome, indirizzo e foto segnaletica. In spregio a tutte le garanzie fornite a qualunque cittadino italiano da un codice penale che era stato riformato esclusivamente a questo scopo nel 1989, e che non ha mai funzionato.
Stavolta è addirittura il Ministro, evidentemente preoccupato di segnare un punto a favore di una giustizia che da troppo tempo non ne becca più una e di un governo che stenta altrettanto a beccarne malgrado le fanfare elettorali, a violare le garanzie giuridiche che un ordinamento di un paese civile dovrebbe fornire a chiunque come inderogabili.
Il nome di Massimo Giuseppe Bossetti finisce in prima pagina come quello di Girolimoni. Dagli anni 30 non è cambiato nulla, se è vero che la gaffe di Alfano è riproposta fedelmente da tutti, dicasi tutti, i giornali e i telegiornali d’Italia, senza eccezione. Si dice: ma è lui, il D.N.A. non sbaglia, la scienza non può fallire. E allora perché il TG della Svizzera riesce a dare esaustivamente la stessa notizia senza fornire generalità e fotografie dell’interessato-indagato? Perché allora il giorno dopo il Procuratore della Repubblica di Bergamo Francesco Dettori ritiene opportuno bacchettare lo stesso Ministro Alfano, sottolineando che la fuga di notizie pregiudica i diritti di un cittadino indiziato ma ancora non riconosciuto legalmente colpevole, per non parlare delle stesse indagini che – nelle mani di un avvocato scafato come i vari Taormina, Marazzita o Bongiorno – rischiano di essere compromesse irreparabilmente?
Brembate gemellata con Cogne? Presto per dirlo, ma intanto la avvocatessa Bongiorno, che ha fatto assolvere in appello Raffaele Sollecito per un delitto che è stato commesso e soprattutto indagato in circostanze tecnicamente analoghe insorge subito: «Il DNA da solo non è una prova, ci vogliono altri riscontri».
La giustizia italiana che sembrava aver segnato finalmente un punto incontrovertibile a suo favore vive ore convulse. Il Gip non convalida il fermo di Bossetti ma ne convalida l’arresto. E’ una perla giuridica, a questo siamo arrivati. Tecnicamente esiste una possibilità del genere, un magistrato può scrivere una cosa del genere su un suo provvedimento, i nostri codici lo consentono.
Il fermo non sussiste perché non c’è pericolo di fuga o di reiterazione da parte dell’indiziato, dice il Gip Ezia Maccora. Ma l’arresto rimane in ragione della natura particolarmente efferata del delitto. Ora, delle due l’una. O chi studia legge, questa legge almeno, ha dei disturbi della personalità che andrebbero risolti una volta per tutte, a livello sociale, con buona pace di Basaglia e dei suoi continuatori, oppure il nostro codice penale e relativo codice di procedura andrebbero di nuovo riformati, questa volta con previsioni di senso compiuto.
Ci hanno rovinato troppi telefilm americani. E i mondiali di calcio che ci fanno guardare meno che distrattamente a qualunque nefandezza accada intorno a noi. Non vorremmo sbagliarci, ma l’impressione comunque è che l’avvocatessa Bongiorno, o chi per lei, stiano già affilando le armi.
Alzi la mano chi si sente garantito da questo tipo di giustizia.
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