Abraham Lincoln
Storie, che si legano ad altre storie, traendo origine da storie più antiche. Storie che interessano forse ancora a qualcuno. Perché in fondo, se il mondo in cui viviamo è fatto così, la ragione è anche in quelle storie.
Aprile fu un mese fatidico alla metà dell’Ottocento per la giovane nazione chiamata Stati Uniti d’America. Il 12 aprile del 1861, pochi mesi dopo le elezioni presidenziali, gli Stati Confederati che avevano decretato la Secessione aprirono il fuoco della guerra civile contro gli ex commilitoni Nordisti a Fort Sumter, Charleston, South Carolina. Sembrava una pagliacciata, ma non lo era. La guerra civile che rischiò di soffocare come un neonato nella culla quello che sarebbe diventato il paese più potente del mondo era una cosa terribilmente seria. In gioco c’erano principi morali e principi economici su cui nessuno, da una parte o dall’altra, voleva transigere.
Abraham Lincoln era un avvocato del Kentucky che si era dato alla politica. Era un whig, un progressista, nato e cresciuto in una famiglia di congregazionalisti, le sette protestanti che applicavano la legge del Signore e quella della frontiera. L’ovest americano era stato dato ai pionieri venuti dall’Inghilterra affinché lo conquistassero con il lavoro delle loro braccia, non con quello delle braccia degli schiavi importati dall’Africa fin da quando i conquistadores europei avevano scoperto che gli indios preferivano lasciarsi morire piuttosto che sottomettersi ai bianchi.
La campagna elettorale del 1860 si era svolta senza mezzi termini sull’annoso tema dell’affrancamento degli africani e del conflitto Nord (abolizionista) – Sud (schiavista). Il neonato partito repubblicano aveva sostenuto Lincoln, i democratici avevano subito una spaccatura. Il loro progressismo si era fermato sulla linea Mason – Dixon che determinava il confine tra gli stati schiavisti e quelli favorevoli all’abolizione. A quel tempo, gli U.S.A. erano in materia di abolizione della schiavitù abbondantemente indietro rispetto alle nazioni avanzate come Gran Bretagna e Francia, e perfino rispetto alle ex colonie spagnole del Sudamerica.
La questione morale si mescolava a quella economica. La Costituzione americana aveva assicurato libertà, uguaglianza e felicità per tutti gli ex sudditi britannici in rivolta contro la Madrepatria, ma perfino Thomas Jefferson aveva dovuto fermarsi di fronte all’ostinazione con cui i suoi compatrioti virginiani difendevano un sistema economico per loro redditizio, per quanto arretrato. Gli africani restavano fuori dal Bill of Rights, gli U.S.A. vissero i primo 80 anni della loro esistenza dilaniati da una contesa sempre meno sotterranea.
Lincoln vinse una contesa serratissima, e gli stati del Sud, Dixieland come si chiamavano popolarmente, cominciarono ad uscire dall’Unione l’uno dopo l’altro. L’uscita più dolorosa fu quella della Virginia, la terra che aveva dato i natali a George Washinton, il luogo sacro dell’epopea rivoluzionaria che aveva fatto degli Stati Uniti la prima repubblica del mondo moderno, il primo stato fondato sulla volontà della nazione e non più sul diritto divino.
A Fort Sumter saltò il compromesso e la pace, che sarebbe stata ristabilita soltanto quattro anni dopo, dopo quantità di sangue versato incommensurabile. Il 9 aprile del 1865, il comandante confederato Robert. E. Lee firmò la resa alla Court House di Appomattox, sempre in Virginia, non lontano da quella sua proprietà personale di Arlington che sarebbe diventato il principale cimitero americano di guerra e da cui si vedeva, al di là, del Potomac, la nuova capitale federale di Washington che i Sudisti avevano tentato invano per quattro anni di conquistare. Lee rese le armi nelle mani del suo avversario Ulysses S. Grant, e la questione Nord – Sud sembrò tornare apparentymente di nuovo una faccenda squisitamente politica.
C’era un Sud da ricostruire, un paese da riaffratellare, una economia da ripensare e soprattutto una marea umana di schiavi neri affrancati il cui destino decidere. Subito dopo Appomatox, Lincoln e Grant avevano discusso varie idee del presidente, che aveva da poco tra l’altro festeggiato la rielezione. Tra queste, c’era quella di rimbarcare tutti gli africani per il loro continente dove già era stato costituito un stato popolato e governato da neri liberati, la Liberia appunto. L’intenzione era quella di evitare un difficile dopoguerra e una problematica integrazione a popolazioni che prevedibilmente erano poco ben disposte l’una verso l’altra.
Non sarebbe successo niente di tutto questo. La sera del 14 aprile il presidente Lincoln credette di potersi recare a trascorrere una serata distensiva al Ford’s Theatre di Washington, dove era in scena una commedia musicale. Il destino lo attendeva a teatro, per mano di un teatrante. Era appena entrato nel palco presidenziale, che gli si fece sotto un tizio armato di pistola.
John Wilkes Booth era un attore di teatro proveniente da una famiglia di attori immigrati dall’Inghilterra. Incarnava alla perfezione il gentiluomo del Sud, imbevuto di cultura classica e romantica insieme. Imbevuto di Shakespeare, soprattutto del suo dramma per eccellenza, il Giulio Cesare che aveva tramandato nei secoli la vicenda-archetipo dei congiurati della libertà che abbattono il tiranno.
Secondo la tradizione, il sic semper tyrannis! gridato da Booth nell’attimo in cui sparava a Lincoln (Così accada sempre ai tiranni!) era stato pronunciato nientemeno che da Marco Bruto, il capo dei congiurati che avevano abbattuto Cesare sotto la statua di Pompeo nel Senato Romano. Ma Plutarco e gli altri storici repubblicani lo avevano smentito, e perfino Shakespeare aveva evitato di mettere in bocca ai suoi personaggi parole che non trovavano posto nella storia.
Lo trovarono allorché la Virginia, la colonia leader delle tredici che si erano ribellate alla matrigna Gran Bretagna, ne aveva fatto il proprio motto. Il tiranno era stato allora finalmente individuato nel re d’Inghilterra, senza immaginare che un giorno sarebbe stato individuato nel Presidente, il dodicesimo successore dell’eroe nazionale Washington. In ogni caso, nessuno fece caso a ciò che diceva Booth, perché il tutto fu coperto dagli spari con cui pose fine alla vita dell’uomo che aveva cambiato la storia d’America.
Mentre Lincoln agonizzava, Booth tentò la fuga. Ma lui ed i suoi compari di congiura vennero acciuffati e giustiziati sommariamente nei giorni successivi. La mancanza di procedimenti giudiziari regolari ha alimentato la leggenda di un complotto più esteso di quello individuato ufficialmente nella cospirazione di Booth e compari. Più o meno ciò che sarebbe successo esattamente cento anni dopo a proposito di un altro omicidio del Presidente degli Stati Uniti di cui a tutt’oggi non sappiamo ancora nulla, o quasi.
Diversamente da John Fitzgerald Kennedy, che riposa in una tomba allestitagli nel cimitero degli eroi americani nella ex tenuta di Robert Lee ad Arlington, Abraham Lincoln riposa nel Memorial appositamente costruitogli nel Mall di Washington. Tra queste due sepolture, la storia americana per quanto riguarda l’emancipazione effettiva degli afroamericani sarebbe rimasta sostanzialmente ferma per circa un secolo.
Lascia un commento