La circostanza della liberazione di Silvia Romano induce ad una riflessione generale sul funzionamento dei nostri apparati e dei nostri servizi preposti alle questioni internazionali. Chi ne ha esperienza, sa che sono ottimi, e lo riconfermano peraltro ad ogni occasione. Sono in grado di portare a casa qualsiasi risultato, a prescindere dal governo da cui in quel momento dipendono, anzi addirittura in mancanza di un governo come succede in pratica adesso.
Che cosa sia successo a Silvia Romano nell’anno e mezzo della sua prigionia lo possiamo immaginare, ma con certezza non lo sapremo mai, e tanto vale dunque sospendere il giudizio. Ed è giusto così, tra l’altro, perché più informazioni vengono divulgate, più vengono messi a rischio i nostri funzionari sul campo ed i nostri canali operativi.
Alle dichiarazioni che vengono fatte in questo momento da ogni parte, compresa l’interessata, suggerirei di fare la tara. Silvia Romano dice quello che può dire e quello che ha probabilmente concordato di dire, per l’incolumità sua e di tutte le parti in gioco. Gli altri sono tutti attori che tirano – comprensibilmente – la coperta dalla propria parte, una coperta che comunque la si stenda è sempre corta, in questi casi.
Si possono e si devono fare alcune considerazioni generali, tuttavia. Qualora sia vero che la Romano ha acconsentito ad alcune svolte personali, può averlo fatto per mille motivi. Dal semplice salvarsi la pelle, alla Sindrome di Stoccolma, ad una vera e propria e sincera conversione a filosofie e stili di vita lontane dalle nostre. Non sarebbe il primo caso, non sarà l’ultimo, e non è infondato ritenere peraltro che chi parte per missioni come quelle della Romano per forza di cose è già un po’ predisposto al richiamo di certe sollecitazioni esistenziali.
Ognuno agisce in base a motivazioni personali, sindacare le quali è sempre complicato. Conosco gente che è andata in Africa o nel Terzo Mondo per vivere in sostanza come Robert Redford e Meryl Streep nella Mia Africa, altri invece che hanno inteso veramente andare a fare del bene, altri ancora che ci sono addirittura riusciti.
Tutti, più o meno consapevolmente, hanno diretto i propri passi verso luoghi e popoli che difficilmente li e ci ringraziano, più facilmente sfruttano la situazione per vantaggi di tipo diverso da quelli proposti dai cooperanti (parlare di debito morale dell’Occidente per un colonialismo finito più di sessant’anni fa mi è sempre sembrato ridicolo, ma ai nostri migranti o assistiti in loco a quanto pare sembra giusto, e giustifica qualsiasi risposta ingrata nei nostri confronti).
A volte, gli assistiti usano i nostri connazionali come bancomat, organizzando rapimenti che nulla hanno da invidiare a quelli dell’anonima sequestri degli anni 60 e 70. Silvia Romano e chi l’ha preceduta nelle mani di rapitori ed estorsori valgono quanto valevano Fabrizio De André e Paul Getty III, e chi ammanta le gesta dei banditi di motivazioni filosofiche, politiche o addirittura religiose farebbe bene a farsi un esame di coscienza, prima di pretendere di farlo al sistema.
In questo contesto, chi opera sul campo per trarre fuori dai guai chi a torto o a ragione dei nostri connazionali ci si è cacciato, ha un compito assai difficile. Paradossalmente, è più facile quello di servizi appartenenti a paesi come gli Stati Uniti, che una volta per tutte hanno stabilito che con quella gente non si tratta (salvo poi mandare i loro Marines a recuperare per quando possibile i rapiti e far sì, già che ci sono, che fatti analoghi non si ripetano, se uno vuol credere alla vicenda bin Laden, o simili). Da noi, ogni volta siamo al riproporsi dei due partiti, come all’epoca del caso Moro: fermezza o trattativa?
Trattativa significa pagare. Giusto o sbagliato, se vuoi riavere la tua cooperante sana e salva devi sborsare, noi non abbiamo Marines da mandare, o kommandos come quelli israeliani ad Entebbe. Il discorso ruota tutto attorno a questo dettaglio fondamentale. Sono soldi nostri, è vero, e non sempre il loro impiego in quel senso ci pare esente da perplessità, comunque uno la pensi politicamente. I casi Sgrena e Regeni di perplessità ne destarono moltissime, per esempio. Altrettante ne ha destate la vicenda dei nostri marò Latorre e Girone, ma di segno opposto. Una certa parte politica li aveva già condannati cinque minuti dopo la notizia del loro arresto da parte degli indiani. Lasciamo stare.
Personalmente credo che quattro milioni (fonte Somalia, prendere con molle lunghissime) per riportare Silvia Romano a casa siano stati spesi bene. Poi sarà lei a chiarire con gli inquirenti le circostanze del perché e del percome, e poi infine a fare ciò che ritiene più opportuno della vita che le è stata apparentemente restituita. Rassegnamoci piuttosto al fatto che la verità su come è andata, come dicevo all’inizio, non la sapremo mai. E, ribadisco, è giusto così.
I quattro milioni, pare, sono frutto di un sequestro di beni ai mafiosi. Facciamo conto di avere avuto un rimborso non atteso e di esserci potuti permettere una spesa altrimenti fuori budget. Ciò non significa che il governo in carica possa e debba permettersi di non destinare nel contempo somme analoghe occorrenti al soccorso ed al sollievo dei nostri connazionali che se la stanno passando male qui a casa loro. Senza che a nessun cooperante finora sia passato tra l’altro per la mente di andare a dare loro una mano in loco. Dove il loco è il nostro paese, sulla strada di diventare altrettanto esotico ed arretrato di quelli che vanno per la maggiore nel mondo ONG.
Bentornata Silvia Romano. Se hai la coscienza a posto lo sai solo tu, e tanto basta. Non mi piace quel chador che avevi ieri all’aeroporto, ma questo è un problema mio. E mi batterò – come diceva Voltaire – perché tu possa continuare ad indossarlo, se è quello che vuoi. Sappi soltanto che tuo marito, o quello che è, Voltaire non l’ha studiato, non sa manco chi è, ed usa semmai le pagine dei suoi libri per farsi le sigarette. Con la mano libera da un Kalashnikov, magari.
Buon rientro a casa e in famiglia.
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