Il suo sorriso, ora beffardo, ora ironico, ora sfrontato, ora scanzonato, ci ha accompagnati dall’infanzia fino ad adesso, che siamo appena un po’ meno vecchi di lui, uscito di scena stanotte all’età di 103 anni. Abbiamo l’età più o meno del figlio Michael, diventato a sua volta un’icona del cinema americano. Ma lui, il babbo, era stato qualcosa di più. Era stato la sua leggenda.
I suoi film li avevamo visti tutti al cinema parrocchiale. Dall’altra parte dell’oceano, dove erano stati girati, erano diventati nel frattempo le pietre miliari di quella che oggi viene chiamata senza mezzi termini l’età d’oro del cinema. In quell’oro, molti carati ce li aveva messi proprio lui, Kirk Douglas.
Era nato ad Amsterdam, quella della contea di Montgomery, stato di New York, da una famiglia di ebrei bielorussi scappati dai pogrom europei e dalla guerra mondiale. Era nato durante la Prima, e avrebbe combattuto nella Seconda. Un giorno, per quel suo servizio reso alla patria adottiva, un presidente degli Stati Uniti, il suo amico Jimmy Carter, gli avrebbe conferito la massima onorificenza civile americana, la medaglia presidenziale della libertà.
A quel punto, la sua leggenda cinematografica era stata stabilita da tempo. Il nome a Hollywood glielo avevano fatto cambiare subito. Quell’Issur Danielovitch con cui era stato battezzato non si prestava proprio ad apparire sui cartelloni del cinema. Nemmeno quell’Isadore Demsky che si era inventato lui come pseudonimo era un granché. Fu un impresario di teatro di Broadway a cucirgli addosso quel Kirk Douglas con cui poco dopo sarebbe entrato nel cuore di generazioni di spettatori. Cognome che avrebbe passato ai figli, Michael l’attore e Joel il produttore, ed al nipote Cameron, figlio di Michael, attore anche lui.
Con quel cognome sarebbe diventato – e rimasto per sempre – Spartaco, poi Erik il vichingo, poi Ulisse, poi qualche cattivo (ma pur sempre di grande spessore) come Chuck Tatum, il giornalista spregiudicato dell’Asso nella manica, il film che avrebbe anticipato di trent’anni a noi italiani la tragedia di Vermicino. Poi una quantità di buoni e cattivi di tutti i tipi protagonisti dell’epopea del western, culminati nella madre di tutte le sue interpretazioni, il Doc Holliday di Sfida all’OK Corral.
Era un grande attore, lo dimostrava sia quando interpretava nientemeno che Vincent Van Gogh in Brama di vivere, sia nei panni di Ned Land, il rozzo e scanzonato ma positivo marinaio di 20.000 leghe sotto i mari. Per non parlare del colonnello Dax di Orizzonti di gloria, il manifesto antimilitarista girato in epoca non sospetta ed ambientato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Billy Wilder, King Vidor, Vincente Minnelli, Stanley Kubrick, John Frankenheimer, Robert Aldrich, Richard Fleischer, Elia Kazan, John Sturges, Lewis Milestone, William Wyler, Brian de Palma, i grandi registi della Golden Age di Hollywood lo hanno voluto tutti, e tutti loro lui ha ripagato fornendo interpetazioni magistrali. Fino all’ultima, del 2003, in quel Vizio di famiglia di Fred Schepisi in cui recitava insieme a Michael, come padre e figlio.
Era anche un grande uomo, un duro dal cuore d’oro. Nel 2008, non ci si crederebbe, gli Stati Uniti d’America non avevano ancora chiesto scusa agli afroamericani importati con la forza per tre secoli e sulla cui schiavitù era stata costruita parte della ricchezza della nazione, o per il regime di segregazione razziale a cui erano stati sottoposti dopo la guerra civile e l’affrancamento da parte di Lincoln. Si impegnò lui in questa battaglia, attraverso il blog che teneva (alla veneranda età di novant’anni suonati) ed altri mezzi di comunicazione, spuntandola nell’agosto dell’anno al termine del quale gli U.S.A. avrebbero eletto il primo presidente colored della loro storia.
Non aveva mai vinto l’Oscar, se non alla carriera, a 80 anni, nel 1996, per uno di quei pentimenti tardivi di cui a volte il cinema, come ogni altra arte, è per fortuna capace. Noi che fin da bambini in quei cinema parrocchiali di periferia l’avevamo visto incarnare tutti i nostri eroi gliene abbiamo dati tanti, in compenso.
Ognuno avrà il suo film preferito, degli oltre settanta da lui interpretati (oltre ad una ventina di serie televisive). Chi scrive, non ha dubbi circa il proprio, e se lo immagina adesso avviato a presentarsi ai cancelli del cielo con una camminata inesorabile come quella di quel giorno a Tombstone, a fianco di Burt Lancaster e con la voce in sottofondo di Frankie Laine.
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