SOCRATES! Fu questo il titolo con cui i maggiori quotidiani sportivi annunciarono nel giugno 1984 che Italo Allodi si era assicurato per conto della Fiorentina dei Pontello le prestazioni di quello che era considerato uno dei più grandi giocatori dell’epoca, capitano e leader carismatico di un Brasile che di fuoriclasse era pieno zeppo e che soltanto lo stato di grazia dell’Italia di Enzo Bearzot e del ritrovato Paolo Rossi aveva tenuto lontano dalla Coppa del Mondo. La Fiorentina veniva da alcune stagioni in cui aveva puntato ad entrare nel giro scudetto, e nel 1982 era quasi riuscita a coronare quel sogno, fermata a un quarto d’ora dalla fine di quel campionato dalla Juventus e da alcune decisioni arbitrali a tutt’oggi inspiegate ed inspiegabili. Con Antognoni inoltre fuori squadra per il secondo grave infortunio della sua carriera, quello alla gamba destra, Pontello decise di sostituirlo al meglio andando a San Paolo del Brasile a prendere nientemeno che il Tacco di Dio.
Era uno dei tanti soprannomi di Socrates. Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto Socrates. I fiorentini, che in quel momento ci credevano quanto e più degli stessi Pontello, presero d’assalto i botteghini fino al limite delle possibilità del vecchio stadio di Nervi, che allora si chiamava ancora Comunale e le cui strutture quell’anno furono messe a dura prova, almeno finché il sogno non si rivoltò contro se stesso, trasformandosi in un incubo.
Socrates non era un personaggio qualsiasi, e non potevano esserlo neppure le sue origini. Rampollo di una famiglia di cristiani maroniti benestanti che avevano dovuto lasciare la Terrasanta al divampare della prima guerra arabo-israeliana nel 1948, era nato a Belém nello stato carioca del Parà il 19 febbraio 1954. Il padre, che aveva letto la Repubblica di Platone, gli mise il nome del più grande filosofo dell’Antichità, sognando per quel figlio un futuro da intellettuale. Socrates non lo deluse, laureandosi in medicina e conseguendo l’abilitazione all’esercizio della professione. Senonché nel frattempo si era reso conto di avere un futuro ancora più luminoso come calciatore, nel paese considerato il paradiso del calcio, e così lo stetoscopio dovette aspettare.
Colui che Sua maestà Pelé avrebbe definito come il giocatore più intelligente della storia del calcio brasiliano dimostrò ben presto il proprio spessore non solo di calciatore ma anche di uomo diventando il punto di riferimento della sua squadra, il Corinthians di San Paolo, non solo per il gioco sul campo ma anche per la vita stessa della società. Nel club paulista il Dottore, come veniva già soprannominato da compagni e tifosi, si rese promotore del primo esperimento di autogestione della storia del calcio brasiliano. In un paese in cui ancora vigeva una dittatura militare, Socrates incitò i compagni a ribellarsi all’allenatore e a gestire tutto quanto, scelte tecniche ed organizzative, in proprio, con vere e proprie assemblee e votazioni a maggioranza. Fu la cosiddetta democrazia corinthiana, e funzionò talmente bene che nel 1982 il club autogestito vinse addirittura il titolo paulista. A quel punto, il ribelle che predicava la democrazia, l’anticapitalismo e il rifiuto delle regole consolidate del mondo del calcio (dai ritiri agli allenamenti intensivi all’obbligo di condurre vita da atleta per quanto riguarda orari, vita sociale, sessuale ed abitudini alimentari) era diventato un personaggio di fama mondiale, nonché il leader carismatico di quel Brasile che si presentò in Spagna sentendosi il Mondiale già in tasca.
I sogni verdeoro finirono in un pomeriggio di fuoco allo stadio Sarria di Barcellona. Socrates mise a sedere Dino Zoff segnandogli l’1-1 sotto le gambe, ma Pablito Rossi scelse proprio quel giorno per resuscitare, trafiggendo per ben tre volte Valdir Peres e con lui tutto il Brasile. I carioca tornarono a casa in lacrime, lasciando però il ricordo di una delle più belle squadre di calcio mai viste. E di quella squadra il personaggio più affascinante non era Zico, né Falcao, ma proprio lui, il Tacco di Dio. Giocatore che impressionava per la grande tecnica individuale, di testa e di piede, e per il senso della posizione in campo che lo vedeva spesso arrivare in porta partendo da dietro, era inevitabile che il suo nome fosse in cima alle agende di tutti i direttori sportivi delle squadre nostrane. Il calcio italiano che era appena diventato campione del mondo era in quel momento il più ricco di disponibilità economiche ed il più appetito tecnicamente da tutti i grandi giocatori del pianeta.
Per rispondere alla concorrenza Pontello aveva già portato a Firenze il capitano della nazionale argentina, Daniel Alberto Passarella. Lo scudetto non era arrivato, e allora nel 1984 serviva rilanciare. Inizialmente Allodi, il Direttore Sportivo viola del momento, aveva pensato a Karl Heinz Rummenigge, il fuoriclasse capitano della nazionale della Germania Ovest sconfitta dagli azzurri nella finale mondiale del Bernabeu. Ma Kalle giocò un brutto scherzo alla Fiorentina, preferendole l’Inter quando sembrava tutto ormai fatto. Per ripiego, i viola andarono sul Dottore e a Firenze fu apoteosi. Per fare l’abbonamento allo stadio dove Socrates avrebbe sciorinato i suoi leggendari colpi di tacco molti fecero nottata, come si suol dire.
Entrare al Comunale quell’anno fu un’impresa. Ad assistere alla partita di Coppa Uefa con l’Anderlecht, malgrado l’andata fosse terminata in una débacle viola (sconfitta per 6-2 e primo affioramento dei problemi che avrebbero fatto naufragare quella promettente annata), si è calcolato che fossero presenti oltre 60.000 persone, probabilmente il record fiorentino di presenze di tutti i tempi.
In realtà, la squadra in cui giocavano i capitani di Argentina e Brasile era un gigante di carta. Lungi dal non far rimpiangere Antognoni, Socrates ebbe un impatto traumatico con il calcio italiano. Al ritiro a Pinzolo andò subito in crisi a causa dei metodi di allenamento che per il nostro calcio erano usuali ma che lui aborriva. Alla prima corsa in salita addirittura svenne.
In campo, l’uomo che aveva incantato il mondo con la maglia verdeoro, con quella viola andava a trazione ridotta. Gli altri correvano e lui rimaneva indietro, tanto che qualcuno rielaborò il suo soprannome più celebre in quello di Dottor Traccheggia. Del resto, era più facile vederlo di sera in qualche circolo ricreativo culturale a parlare di politica e a bere birra e fumare come un turco insieme agli amici piuttosto che di pomeriggio con i compagni ad allenarsi ai Campini. Lo spogliatoio era spaccato in due, per effetto del dualismo creatosi tra lui e Passarella, che non potevano essere più diversi umanamente e che infatti non si presero fin dal primo minuto. Il risultato fu un imprevedibile disastro.
Quell’annata deludente che gli valse l’ennesimo soprannome della sua collezione, il Che Guevara del Calcio, si concluse con 25 presenze, 6 reti e pochi veri momenti di splendore all’altezza della sua fama. Per la Fiorentina valse inoltre uno scivolamento nella mediocrità che sarebbe andato ben oltre quel campionato, concluso al nono posto dal veterano Valcareggi sulla panchina dopo che Picchio De Sisti aveva dovuto gettare la spugna a causa di un malore. Il flop del Dottore coincise con il definitivo abbandono delle ambizioni di gloria e di vittoria dei Pontello, i quali profondamente delusi dai risultati e dalle prime contestazioni dei tifosi ripiegarono su una gestione più modesta negli ultimi anni della loro proprietà.
Alla fine di quella stagione infausta, tra la Fiorentina e Socrates la separazione fu consensuale. Troppe sigarette nei suoi polmoni, troppa saudade, troppi interessi extracalcistici, avevano reso la parentesi fiorentina di Socrates breve e di pochissima soddisfazione. Il campionato in cui Socrates ebbe in mano il centrocampo viola, purtroppo, è ricordato come uno dei più scialbi giocati dalla Fiorentina. A o calcanhar que a bola pediu a Deus (Il colpo di tacco che la palla chiese a Dio) non restò che fare ritorno in patria, nel suo mondo dove il calcio andava del suo passo e si adattava ai suoi schemi mentali e dove il suo carisma era rimasto intatto. Lo riprese il Flamengo, con grande sacrificio economico. L’anno dopo, era il 1986, era di nuovo a difendere i colori verdeoro ai mondiali messicani, dove la Selecao fu fermata di nuovo ai quarti, stavolta dalla Francia di Michel Platini. Socrates, per quanto finisse per sbagliare uno dei rigori che costarono l’eliminazione alla sua squadra, tornò a fornire un a prestazione all’altezza del suo nome, aumentando il rimpianto nella città che aveva sognato di diventare finalmente grande con lui e dove invece la sua stella aveva brillato per pochi insufficienti istanti.
Lasciò il calcio attivo nel 1988, per dedicarsi alle altre sue passioni: la musica, la politica, il teatro. E soprattutto, purtroppo, l’alcool e le sigarette, le sirene di una vita sregolata che ne hanno fatto al pari di George Best il giocatore che peggio ha saputo sfruttare il suo immenso talento di tutta la storia del calcio. Anche se a lui il talento calcistico peraltro non interessava, perché come aveva detto una volta durante la democrazia corinthiana essere campioni è un dettaglio.
Nel 1983, quando ancora la vita gli offriva il suo lato più fulgido ed il suo talento calcistico era tutt’altro che un dettaglio, aveva previsto perfino la sua uscita di scena definitiva, dicendo: “Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo”. E’ scomparso proprio il giorno in cui il Corinthians si è laureato campione nazionale, il 4 dicembre 2011, stroncato dalle conseguenze della troppa frequentazione della sua compagna bottiglia. Al triplice fischio della gara decisiva con il Palmeiras, migliaia di tifosi andarono in pellegrinaggio fino al luogo dove aveva appena chiuso gli occhi per l’ultima volta l’uomo che aveva ridato orgoglio al calcio e alla democrazia brasiliani, e che purtroppo a Firenze aveva ballato una sola estate.
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