Estadio Santiago Bernabeu, Madrid, 11 luglio 1982. Per la quarta volta nella sua storia sportiva, la Nazionale italiana è in finale ad un campionato mondiale di calcio. Due volte, nel 1934 e nel 1938, le è andata bene. Una volta, nel 1970, le è andata male, al cospetto del Brasile di Pelé, a cui aveva resistito più di un’ora, esausta dopo i supplementari di Italia – Germania 4 – 3.
La lunga notte seguita al dopoguerra sembra finita, e non solo sportivamente parlando. Dopo essere stati se non i maestri del calcio almeno coloro che – per tutti gli anni Trenta – li mettevano spesso alle corde e vincevano quello per cui loro si rifiutavano di competere, gli Azzurri d’Italia erano precipitati in una crisi profonda. Malgrado la possibilità di schierare fuoriclasse a getto continuo, sia quelli nati nel nostro paese che i naturalizzati o oriundi, a partire dal Mondiale del ‘50 in Brasile in cui aveva difeso per l’ultima volta il titolo la nostra Nazionale aveva infilato una figuraccia dietro l’altra.
La nottata sportiva aveva coinciso con la nottata sociale. Era stata dura per gli italiani rialzare la testa dopo la sconfitta nella guerra mondiale e una ricostruzione che aveva attirato ammirazione e simpatia solo quando era alla fine sfociata nel boom economico. Era stata dura e aveva lasciato strascichi laceranti. Un malinteso anti-militarismo e pacifismo erano sfociati in anti-patriottismo ed in una sistematica depressione di tutti i valori fondanti la nostra comunità, il nostro Stato. Chiunque esponesse una bandiera tricolore, o le prestasse omaggio a qualsiasi titolo, veniva bollato come fascista. Stesso discorso per l’Inno di Mameli, la parata delle Forze Armate, le nostre Forze Armate stesse ed il loro eventuale impiego a difesa di un qualunque nostro interesse nazionale.
Erano tempi bui per chi si sentiva italiano, nient’altro che italiano, e avrebbe voluto manifestarlo liberamente ed esserne orgoglioso. Unica eccezione, lo sport. Alle Olimpiadi, ai Mondiali di calcio, era ammesso sentir suonare gli inni, perfino il nostro, e vedere esposte le bandiere, anche l’odiato – da certe parti politiche – tricolore. Per più di vent’anni il calcio però aveva riservato poche soddisfazioni. Di orgoglio nazionale ne aveva alimentato assai poco.
Finché allo stadio Azteca di Città del Messico una squadra azzurra aveva inflitto ai tedeschi che al contrario nel calcio del dopoguerra l’avevano fatta da padroni un 4 – 3 che era diventato epocale, aveva avuto un valore sociale e politico prima ancora che sportivo. Non si poteva essere ancora patriottici più di tanto (era il 1970, eravamo al principio di quelli che sarebbero stati chiamati Anni di Piombo), ma si poteva almeno inorgoglirsi, e a rivedere il gol di Rivera fare quel gesto dell’ombrello che rivolto ad avversari con cui non c’é stato mai feeling (neanche durante l’Asse Roma – Berlino) era sempre condiviso e condivisibile.
Dodici anni dopo, eccoci di nuovo di fronte. Loro, i panzer, per la penultima volta come Germania Ovest (il Muro di Berlino aveva soltanto sette anni di vita ancora, a Italia 90 non ci sarebbe stato più, già ridotto in pezzi per collezionisti). Noi con una nuova generazione di fenomeni, Paolo Rossi al posto di Gigi Riva, Bruno Conti al posto di Angelo Domenghini, Giancarlo Antognoni al posto di Gianni Rivera. Ed Enzo Bearzot sulla panchina che era stata di Ferruccio Valcareggi e Vittorio Pozzo.
Il Mundial era cominciato male, gli Azzurri in silenzio stampa, i risultati che stentavano ad arrivare, la paura di essere eliminati dal Camerun. Poi, nel gironcino in cui avremmo dovuto fare da sparring partners, da punching ball, due scoppole di fila, prima all’Argentina campione uscente, poi al Brasile che secondo molti se non tutti sarebbe stato il campione subentrante.
Ed ecco gli italiani accorgersi che quell’inno nazionale intonato dalla banda spagnola (in quello stadio Sarrià di Barcellona che non esiste più) suonava proprio bene, aveva un piglio più marziale del solito, e pazienza se pochi degli Azzurri allora lo cantavano. Quella bandiera tricolore in compenso cominciava ad andare a ruba nelle cartolerie, nelle sartorie, e faceva proprio un bell’effetto sventolarla nei caroselli automobilistici dopo che l’Italia aveva vinto.
Era bello svegliarsi dopo gli Anni di Piombo e la lunga notte della vergogna di essere italiani, e sentire accanto a te qualcuno che ti vociava nelle orecchie viva l’Italia!, contagiandoti a vociare ancora più forte, a cantare quel benedetto inno che a parole non piaceva a nessuno ma di cui all’improvviso tutti si ricordavano le strofe.
Rossi, Tardelli, Altobelli, il tre volte Campioni del mondo! di Nando Martellini. La gente che tornava per le strade immersa in un tripudio in cui finalmente si distinguevano soltanto tre colori: il bianco, il rosso e il verde. L’anziano carismatico Presidente, che aveva ridato dignità al paese ed alle sue istituzioni rappresentative, adesso faceva mostra di una gioia fanciullesca al pari di un cittadino qualsiasi. E con quel gesto e quella mimica al gol di Spillo liberò nella coscienza e nel cuore di tutti una quantità di sentimenti che oggi a ripensarci è difficile capire: è fatta, non ci riprendono più.
Dopo la vittoria che riportava in Italia la Coppa del Mondo dopo 44 anni (non la Rimet, rimasta per sempre in Brasile, ma la nuova Coppa FIFA fusa dall’orafo italiano Cazzaniga e sollevata da un Dino Zoff raggiante e sorridente come mai l’avevamo visto), molti cantanti vollero dedicare una loro composizione agli Azzurri.
A memoria di quella notte di 40 anni fa di brani abbiamo scelto questo, di Antonello Venditti. Che disse chiaramente di non avere avuto tempo né forse la giusta ispirazione per dedicare un pezzo ai nostri campioni, al nostro paese, ma che vedendo le immagini di Sandro Pertini che sbatteva la pipa sulla balaustra del Bernabeu ai gol italiani aveva avuto quella di dedicare a lui e a tutta l’Italia questo qui, composto in uno dei momenti in cui ancora il sentimento italiano era da ritrovare, per strada, sotto la pioggia.
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