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Stand by me

(Nella foto, i quattro di Stand by me. River Phoenix – Chris Chambers è il primo a sinistra)

Nostalgia di affetti, amicizie e tempi ormai lontani, che non torneranno più.

C’é stato un momento nella sua carriera che Stephen King avrebbe potuto uscire dal ristretto ambito del genere horror (pur di altissima qualità) in cui si è confinato, e consacrarsi grandissimo scrittore in assoluto. Una lunga, intermittente e riaffiorante ispirazione che attingeva all’età in cui il mondo, il nostro mondo, il nostro tempo erano giovani. Il tempo che adesso è quello dei ricordi, di più generazioni.

Stephen King insieme ad alcune delle sue "creature"

Stephen King insieme ad alcune delle sue “creature”

Da Stagioni diverse a Cuori in Atlantide, King ha raccontato come nessun altro l’infanzia e l’adolescenza dell’America moderna, la perdita di innocenza e l’acquisizione di consapevolezza da parte delle generazioni della Guerra di Corea e di quella del Vietnam. Ragazzi che devono crescere e diventare uomini combattendo i mostri che si portano dentro prima ancora che quelli che incontrano là fuori. E non sempre ce la fanno.

Di tutta la sua produzione letteraria, a parere di chi scrive la raccolta Stagioni diverse rappresenta la cosa migliore che lo scrittore di Portland, Maine ci abbia regalato. Dei quattro racconti che contiene – di cui tre sono stati trasposti al cinema –, Stand by me – Ricordo di un estate è a sua volta quello più suggestivo, se non il migliore in assoluto.

«Eravamo stati via solo due giorni, eppure la città sembrava diversa. Più piccola». Il viaggio iniziatico alla ricerca del compagno scomparso segna i destini di quattro ragazzini in una fatidica estate, quella del 1959 in cui tutto sta per cambiare. La vecchia America di provincia sta per diventare improvvisamente angusta come una piccola cittadina agli occhi della generazione più giovane che si appresta a vivere il mito della Nuova frontiera, portato dai tempi nuovi che cominceranno di lì a poco con la presidenza Kennedy.

Dei quattro ragazzi che partono dalla cittadina di Castle Rock, Maine (una specie di aristotelica unità di spazio e di tempo per King, che vi ha ambientato buona parte dei suoi racconti e spesso anche romanzi), due sono destinati a rimanere indietro, Teddy Duchamp e Vern Tessio, la parte debole della società che sconta il sogno americano impossibile da realizzare per tutti. Gli altri due, Chris Chambers e Gordie Lachance, sono destinati a farcela, ma a che prezzo?

Chris: Non riuscirò mai ad andarmene da questo posto, vero, Gordie?

Gordie: Puoi fare tutto, basta volerlo.

Chris diventerà avvocato, uno di quelli che si schierano dalla parte dei deboli. Gordie diventerà scrittore, come sognava («Un giorno tu diventerai un grande scrittore, Gordie. Potrai anche scrivere di noi, se sarai a corto di idee», gli dice tra il serio ed il faceto l’amico mentre procedono nel loro viaggio).

Nel finale del racconto, uno sconsolato e forse ormai disincantato Gordie apprende della morte di Chris, rimasto vittima di una rissa che aveva cercato di sedare. E di colpo, il tempo passato e gli affetti che si è portato via gli piombano addosso tutti insieme.

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Da un grande racconto per una volta un grande film. Bob Reiner lo girò nello stesso stato di grazia che aveva avuto Stephen King nello scriverlo. E in stato di grazia erano Richard Dreyfuss a cui toccò proprio la parte – iniziale e conclusiva – del Gordie adulto, e soprattutto River Phoenix, la giovane promessa del cinema americano prematuramente scomparso a causa di una overdose, che interpretava il giovane Chris, il ragazzo dal cuore tormentato, ma d’oro.

Bob Reiner avrebbe in seguito dichiarato di non essere più capace di rivedere il suo film fino alle scene finali, proprio a causa della consapevolezza di quello che pochi anni dopo era successo a Phoenix, e del parallelismo che si era stabilito tra giovani vite stroncate nella finzione scenica e nella vita reale.

A noi quella scena finale resta, e vale il prezzo del biglietto. E quelle ultime parole di Lachance-Dreyfuss ogni volta sono come una mano dolce e inesorabile che ci stringe il cuore:

«Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha?»

Richard Dreyfuss nella scena finale

Richard Dreyfuss nella scena finale

Il brano qui sotto è quello a cui si riferisce il titolo del racconto e del film. Fu scritto nel 1961 da Ben E. King per i Drifters, e fu un successone da Top Ten sia in America che in Inghilterra. Ve la proponiamo nella versione più ritmata e tutto sommato più suggestiva di John Lennon del 1975.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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