Nella foto, da sinistra: Slava Metreveli, Lev Jascin, Igor Netto
Com’era successo per la prima edizione del Campionato del Mondo di Calcio del 1930 (in quel caso più comprensibilmente, perché a quell’epoca un viaggio transoceanico per nave o addirittura per aereo non era uno scherzo), anche la prima edizione dell’Europeo fu penalizzata dall’assenza di alcune delle grandi potenze pallonare del momento.
Il 1960 fu l’anno delle Olimpiadi di Roma. Alcune federazioni importanti preferirono ancora optare per il torneo olimpico, o forse semplicemente non credevano nella riuscita del torneo nuovo di zecca che la neo costituita UEFA aveva organizzato per le rappresentative nazionali continentali. All’avvio delle eliminatorie nell’aprile del 1959 mancavano all’appello Inghilterra, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Svizzera.
Mancava anche l’Italia, ufficialmente perché impegnata in altre competizioni. In realtà la nostra Federazione aveva difficoltà a ricostituire una rappresentativa azzurra all’altezza delle tradizioni del nostro calcio, dopo il disastro che aveva portato nel 1958 alla eliminazione dal mondiale svedese da parte dell’Irlanda del Nord (fino al 2018 l’unico caso di mancata partecipazione dell’Italia ad una fase finale mondiale).
Il 1960 fu anche l’anno in cui cominciavano a sentirsi i primi effetti della distensione tra i due Blocchi. All’Est, Krushev aveva spazzato via lo stalinismo. A Roma Giovanni XXIII aveva fatto lo stesso con l’eredità dell’ultimo Papa Re Pio XII. Negli U.S.A. era l’anno elettorale e tutti davano per favorito alla vittoria finale il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy, l’apostolo della Nuova Frontiera, di una nuova generazione, di un mondo nuovo. Di quel mondo, il calcio sembrava poter diventare il verbo, uno strumento di pace dopo tanti decenni di guerra, calda o fredda.
Tra le 17 squadre che si iscrissero alla prima edizione della Coppa Delaunay, le formazioni dell’Est europeo erano ben otto. Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Germania Est, Romania, Bulgaria, Polonia e Ungheria. Per parte occidentale, il campo delle partecipanti era come detto fortemente menomato. A parte la Spagna, che viveva una situazione ed una condizione internazionale particolari, era o sembrava essere proprio il paese che governava l’UEFA da sempre – la Francia – il più accreditato a cogliere la vittoria finale, la prima a livello internazionale.
Fino a quel momento, il calcio del Patto di Varsavia aveva raccolto pochi allori. Unica eccezione, la Grande Ungheria che aveva mancato il titolo mondiale di un soffio in Svizzera nel 1954, per poi dissolversi due anni dopo all’epoca in cui a Budapest entrarono i carri armati sovietici, e Puskas e compagni chiesero asilo politico alla Spagna, in cui si trovavano per l’appunto in tournée. Il calcio danubiano ormai si avviava a diventare un ricordo del passato, ingiallito e sbiadito. Nessuno si aspettava quindi che i primi tre posti del podio potessero finire ad altrettante squadre dell’Est.
Il regolamento prevedeva turni eliminatori da giocare con andata e ritorno nei paesi partecipanti. Dopo uno spareggio vinto dalla Cecoslovacchia sull’Eire, negli ottavi i cechi travolsero i danesi per complessivi 7 gol a 3, i francesi fecero altrettanto per 8 a 2 con i greci, gli spagnoli 7 a 2 con i polacchi, gli austriaci 6 a 2 con i norvegesi, i portoghesi 5 a 2 con i tedeschi dell’Est. L’URSS eliminò per 4 a 1 una nazionale ungherese che non era più quella dei tempi d’oro, mentre la Jugoslavia (3-1) e la Romania (3-2) vinsero con più fatica gli scontri rispettivamente con Bulgaria e Turchia.
Nei quarti, la Coppa Delaunay visse la sua prima grana internazionale. Il sorteggio mise di fronte due delle squadre migliori, ma anche purtroppo rappresentative di due paesi che si ignoravano diplomaticamente da più di 20 anni. La Spagna del Generalissimo Francisco Franco non aveva e non voleva avere rapporti diplomatici con l’U.R.S.S., fin dai tempi della Guerra Civile. Né voleva avere rapporti di altro tipo, compresi quelli sportivi. Le Furie Rosse rifiutarono la trasferta a Mosca e presero uno 0-3 a tavolino, ripetuto a causa della mancata partecipazione al match di ritorno a casa propria a Madrid.
I russi furono raggiunti in semifinale dai francesi, che nei due match tra Parigi e Vienna ne rifilarono 9 agli austriaci, subendone 4. La Jugoslavia regolò 6-3 un Portogallo che non era ancora quello di Eusebio, la Cecoslovacchia estromise la Romania per 5-0.
A termini di regolamento, all’altezza delle semifinali l’UEFA designava tra le quattro superstiti il paese organizzatore della fase finale. La scelta cadde sulla Francia, ufficialmente in quanto nazione che dava le maggiori garanzie in termini di organizzazione. In sostanza, i galletti speravano di cogliere il loro primo alloro internazionale con la squadra che era stata semifinalista in Svezia due anni prima. Le due partite vinte largamente in casa nel vecchio stadio di Colombes con Grecia ed Austria alimentavano l’ottimismo francese, anche se le pesanti assenze di Fontaine, Kopa ed altri titolari pesavano come macigni. Gli Jugoslavi invece erano una squadra giovane, al completo e per di più in grande forma (come avrebbero dimostrato vincendo nel settembre successivo il torneo olimpico a Roma). Al Parco dei Principi, il nuovo stadio al Bois de Boulogne in cui si giocò la semifinale, il sogno francese sembrò in un primo tempo decollare, a metà ripresa i bleus conducevano per 4-2. Poi, complice una difesa transalpina non impeccabile, toccò ai plavi scatenarsi. Finì 5-4 per la nazionale balcanica.
Nello stesso momento, a Marsiglia, l’URSS regolava 3-0 la pur forte nazionale cecoslovacca, che di lì a due anni avrebbe fatto vedere i sorci verdi in finale mondiale a Santiago del Cile al Brasile di Amarildo & C. A Parigi il 10 luglio scesero dunque in campo per il titolo Unione Sovietica e Jugoslavia, dopo che la sera prima i cechi avevano tolto anche la medaglia di bronzo ai delusissimi padroni di casa.
URSS – Jugoslavia era anch’esso un match carico di significati extracalcistici. La prima volta dell’Est era un’impresa a cui ambivano entrambe le squadre come gratificazione di un orgoglio nazionale che dalla Seconda Guerra Mondiale in poi era cresciuto a dismisura. I due paesi, apparentemente accomunati dalla filosofia comunista a cui le proprie istituzioni erano improntate, erano separati dagli interessi nazionali. Dal 1948, il maresciallo Tito aveva rotto con il Patto di Varsavia e la guida sovietica, ed era diventato il leader principale dei non allineati.
La finale fu la sublimazione di un nuovo calcio, basato sulla prestanza fisica, la corsa, la tattica ed una dose fino a quel momento insospettabile di talento. I giovani jugoslavi riuscirono a passare in vantaggio alla fine del primo tempo con Galic, che riuscì a bucare colui che stava diventando un mito del calcio mondiale, il portiere Lev Jascin, il Ragno Nero, l’unico portiere della storia a vincere poi il Pallone d’Oro (nel 1963, con la Dinamo Mosca).
Ma il calcio danubiano riveduto e corretto degli jugoslavi lentamente fu eroso da quello meno brillante forse ma più solido dei sovietici, che pareggiarono ad inizio ripresa con il forte attaccante Metreveli e chiusero i conti ai supplementari con Ponedel’nik. L’ultimo atto della presidenza UEFA di Pierre Delaunay, figlio di quell’Henri che aveva inventato il trofeo, fu quindi quello di consegnarlo per la prima volta non al proprio paese come aveva sognato, lì davanti alla platea del Parco dei Principi, ma alla rappresentativa su cui non avrebbe scommesso probabilmente nessuno. Gli uomini del mister Gavril Kachalin erano riusciti là dove quelli di Stalin avevano fallito.
Anche nel calcio, come nella politica internazionale, l’ostracismo verso l’Unione Sovietica seguito alla Rivoluzione d’Ottobre e durato fino alla Guerra Fredda sembrava finito per sempre, mentre Igor Netto, il capitano della squadra con la scritta CCCP sulla maglia sollevava la coppa di Chobillon nella notte di Parigi.
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