Nella foto: gli eroi dell’Olimpico (10/06/1968)
Dopo la vittoria sull’URSS e la conquista del primo titolo internazionale, la Spagna si era avviata verso un dorato crepuscolo destinato a durare, a livello di Nazionale come di club, fino alla fine del regime franchista ed anche oltre. Ma nel frattempo il calcio europeo aveva rialzato la testa anche grazie ad altri interpreti.
Nel 1966 il mondiale inglese aveva visto un podio tutto del Vecchio Continente, per la prima volta dal 1934. L’Inghilterra si era vista finalmente riconoscere il titolo di maestra del calcio che ostentava fin dalla nascita del football nel secolo precedente, ma che nel ventesimo secolo non si era mai tradotto in un successo internazionale in competizioni ufficiali. Dietro di lei, Germania Ovest, Portogallo ed URSS. Grandi squadre e grandi stelle da opporre a quelle del calcio sudamericano, come quell’Eusebio portoghese che non aveva fatto rimpiangere più di tanto Pelé.
Sembrava proprio che il vecchio sogno di Henri Delaunay di creare una prestigiosa Coppa Europa di calcio per nazioni fosse finalmente sul punto di decollare. Alle qualificazioni per l’edizione che si doveva disputare nel 1968 si iscrissero 31 rappresentative, praticamente l’intero continente. Furono divise in otto gironi, sette da quattro, l’ottavo – quello di Jugoslavia, Germania Ovest ed Albania – da tre.
Alla rinascita del calcio europeo, l’Italia aveva contribuito grandemente a livello di club. La Nazionale azzurra invece aveva collezionato batoste su batoste, rendendo ai suoi tifosi quasi impossibile immaginare che un giorno questa squadra aveva dominato in lungo e in largo, mettendo insieme tra il 1934 ed il 1938 due titoli mondiali ed uno olimpico.
Il 1966 era stato un annus horribilis. La squadra allenata da Edmondo Fabbri e piena zeppa di giovani promettenti stelle provenienti da squadre che avevano monopolizzato le ultime edizioni della Coppa dei Campioni – le milanesi – o che comunque tremare il mondo facevano – il Bologna di Bernardini – era andata a sbattere contro una di quelle mine vaganti che gli italiani sono bravi a fabbricarsi da soli, salvo poi saltarci sopra in aria. La Corea del Nord di Pak Doo Ik aveva eliminato gli azzurri a Middelsborough, aprendo una delle crisi epocali del nostro calcio.
Ne era seguita la chiusura delle frontiere (allora si poteva) ed il ritorno alla coltivazione di un vivaio che non aveva e non avrebbe deluso. A Rivera, Mazzola & c. si aggiunsero campioni del calibro di Gigi Riva, Angelo Domenghini, Giancarlo De Sisti, Giacinto Facchetti, Pierino Prati e tanti altri, gente che finalmente trovava posto in prima squadra e poteva esprimere fino in fondo tutto il suo notevole potenziale. Era ora per il calcio azzurro di rinascere, dopo trent’anni di umilianti débacles.
Le qualificazioni offrirono poche sorprese. La Spagna campione in carica vinse di misura il primo girone sulla Cecoslovacchia. La Bulgaria surclassò a sorpresa nel secondo il Portogallo di Eusebio. L’URSS frantumò il terzo spazzando via Grecia ed Austria, la Jugoslavia fece altrettanto nel quarto, malgrado la presenza dei vicecampioni del mondo della Germania Ovest. L’Ungheria non ebbe problemi con i tedeschi dell’est e gli olandesi nel quinto. Nel sesto, l’Italia non ebbe problemi con Romania, Svizzera e Cipro. Nel settimo la Francia sopravanzò i cugini belgi e la Polonia. Chiuse l’Inghilterra a cui era stato riservato un gironcino coincidente con il Regno Unito, comprendente Scozia, Galles ed Irlanda del Nord.
Ai quarti di finale parteciparono dunque squadre che avevano scritto la storia del calcio europeo e mondiale nei trent’anni precedenti. Due campioni del mondo (Inghilterra ed Italia), due campioni europei (URSS e Spagna), un campione olimpico (Jugoslavia, a Roma 1960), ex-grandi squadre che avevano sfiorato il successo (Ungheria nel 1954 e Francia nel 1958) e la proverbiale outsider, la Bulgaria. Quattro squadre dell’Ovest, quattro dell’Est, in perfetta parità.
Era l’anno in cui la contestazione giovanile sconquassava il mondo. Nell’ottobre successivo a Città del Messico sul podio della gara più prestigiosa dell’Atletica Tommie Smith avrebbe sconvolto le Olimpiadi portando alla ribalta il Black Power con il suo pugno alzato. Olimpia si era dovuta aprire ai tempi dimenticando filosofie e gesti che non erano più quelli di de Coubertin. Era lecito aspettarsi anche nel calcio qualche sconquasso che rimettesse in discussione gli schemi, in tutti i sensi.
La rivoluzione era nell’aria, ma non ancora matura. Nei sobborghi di Amsterdam un ragazzino di nome Johannes Hendrik aveva smesso di palleggiare sui marciapiedi ed era finito titolare nei Lancieri dell’Ajax. Ma il tempo di Johann Cruyff non era ancora venuto. L’Europeo del 1968 fu invece il momento della rinascita di alcune grandi decadute.
Cominciò l’Inghilterra, che confermò il buon sangue della sua generazione calcistica eliminando i campioni in carica della Spagna. 1-0 a Madrid, 2-1 a Londra. Continuò l’Italia, che strinse i denti a Sofia in Bulgaria limitando i danni per 2-3 malgrado l’infortunio di Armando Picchi che mise in crisi la difesa e grazie alla consacrazione definitiva di Domenghini e Prati, eroi delle due sponde della Milano calcistica. A Napoli, al ritorno, il discorso qualificazione fu comunque archiviato con un perentorio 2-0.
A Parigi, la Francia mancò l’ennesima rivincita sulla Jugoslavia pareggiando 1-1 e andando poi a soccombere a Belgrado per 5-0. A Budapest, l’URSS illuse l’Ungheria di poter cogliere anche’essa finalmente una rivincita che in questo caso non era soltanto sportiva, andando sotto per 2-0. le cose furono rimesse a posto per i sovietici allo stadio Lenin di mosca, 3-0 e sogni magiari rimandati.
Era il momento di assegnare la fase finale. In ballo, due paesi dell’Est, due dell’Ovest. Di andare a giocare all’Est non se ne parlava, i tempi non sarebbero stati maturi fino al 1976. All’Ovest, l’Inghilterra aveva appena avuto il suo mondiale. Restava l’Italia.
Dopo 34 anni una competizione internazionale calcistica tornava a disputarsi nel nostro paese. Dopo otto anni dall’Olimpiade romana, gli stadi italiani tornavano a gremirsi di appassionati che sognavano un trionfo azzurro di cui avevano solo sentito parlare dai più vecchi, nei ricordi di un tempo ormai lontano prima della guerra.
Gli stadi prescelti per le semifinali erano il San Paolo di Napoli, dove si doveva giocare Italia – URSS, e il Comunale di Firenze dove sarebbe andata in scena Jugoslavia – Inghilterra. All’Olimpico di Roma, era riservata la finale che tutti nella penisola sognavano.
A Napoli, l’Italia affrontò a viso aperto quella che nell’ultimo decennio era stata spesso la sua bestia nera. Lo fu anche stavolta, tenendo testa agli azzurri di Valcareggi per 120 minuti. Un gran tiro di Domenghini si stampò sul palo strozzando l’urlo dei partenopei quel giorno vestiti dell’azzurro nazionale. Alla fine delle ostilità, non era prevista l’esecuzione dei calci di rigore, né la ripetizione (ammessa solo per la finale). Era il momento della fatidica monetina, un sistema superato in crudeltà soltanto dalla breve stagione del golden goal.
L’arbitro tedesco Tschenscher chiamò dunque le due squadre negli spogliatoi per il sorteggio. Da quel momento, ciò che successe è ammantato di leggenda. Il capitano azzurro Giacinto Facchetti aveva fama di essere fortunato al gioco. Toccò a lui scegliere testa ed aspettare il fatidico lancio. Fuori, lo stadio era reso elettrico dalla tensione repressa, che si sciolse improvvisamente allorché i napoletani videro affacciarsi dalla scaletta degli spogliatoi un Facchetti stravolto dalla felicità. L’arbitro aveva raccolto la monetina e detto Italy.
L’URSS tornava a casa imbattuta ma eliminata. A Firenze intanto la Jugoslavia superava l’Inghilterra per un gol a zero, e si poneva come ultimo ostacolo tra gli azzurri ed il gradino più alto del podio. I plavi erano un’altra bestiaccia contro cui l’Italia era uscita spesso malconcia. Anche in questo caso, alla rivalità sportiva si aggiungevano motivazioni extracalcistiche, che risalivano alla guerra mondiale ed al suo epilogo sanguinoso.
L’8 giugno l’Inghilterra campione del mondo vinse il bronzo a spese di una URSS ormai demotivata. Due ore dopo, nello stesso stadio Olimpico, gli azzurri scesero in campo per il titolo contro una Jugoslavia che non faceva mistero di sentirsi superiore. Ai balcanici mancava Osim, agli azzurri Rivera. La Jugoslavia sembrò inizialmente tornata quella del 1960, irretendo gli azzurri con un gioco paragonabile a quello della Spagna di quarant’anni più tardi. Il bomber Dzajic, che aveva già deciso la semifinale, portò in vantaggio gli slavi, che da quel momento in poi si misero a gestire il risultato anziché cercare il colpo del K.O.
Gli azzurri privi di Rivera non riuscivano ad innescare i loro pur temibili attaccanti Anastasi e Prati. Ci voleva una prodezza individuale, la trovò Domenghini a dieci minuti dalla fine, con un calcio di punizione dei suoi. Risultato finale 1-1, tutto da rifare.
Il regolamento prevedeva la ripetizione del match dopo 48 ore. I calci di rigore su cui l’Italia avrebbe pianto spesso e volentieri erano per fortuna di là da venire. Valcareggi capì che non poteva ripresentare la stessa formazione di due giorni prima, servivano forze nuove. Dentro Mazzola e spazio a due ragazzi che di lì a poco avrebbero fatto la storia dei rispettivi club: Gigi Riva, che dopo quella partita cominciò ad essere chiamato Rombo di Tuono, e Picchio De Sisti. Fu proprio Riva a dare fiato alle speranze dell’Italia portandola in vantaggio al ’12. Fu Anastasi a darle certezze, raddoppiando al ’31. La Jugoslavia non aveva più le forze per ribaltare il risultato.
Trenta anni dopo il mondiale francese, gli azzurri tornavano ad alzare una coppa, Roma e tutte le altre città italiane a riempirsi di gente festante. La maledizione degli eredi di Vittorio Pozzo era finita. L’Italia era rinata, anche nel calcio.
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