Quattro anni dopo la vittoria dell’Italia, il mondo era completamente cambiato. Anche il calcio, come ogni altra cosa. Quando Valcareggi e i suoi ragazzi avevano alzato la Coppa che sanciva la rinascita della scuola italiana dopo il periodo buio del dopoguerra, la penisola pallonara era all’apice di un’epoca in cui i suoi club dominavano in Europa ed i suoi campioni facevano incetta di gol, titoli, riconoscimenti. Ma nuovi eroi erano sulla rampa di lancio, nuove squadre premevano per raggiungere il loro momento di gloria. Nuove filosofie di gioco si preparavano a strabiliare un mondo che era sostanzialmente rimasto lo stesso fin dagli anni Trenta.
Un anno dopo il trionfo di Roma, al Santiago Bernabeu di Madrid il Milan aveva vinto la sua seconda Coppa dei Campioni schiantando l’Ajax di Amsterdam. Il 4-1 finale era sembrato un’apoteosi. In realtà si trattava del canto del cigno. Il calcio del nord stava per travolgere quello mediterraneo, e proprio i lanceri olandesi avrebbero suonato la carica decisiva.
Anche la Germania era matura per rinverdire il suo palmares, fermo alla chiacchierata vittoria sulla Grande Ungheria ai mondiali del 1954. Una nuova generazione di campioni si stava affacciando alla ribalta. Dopo il secondo posto ai mondiali del 1966 ed il terzo a quelli del 1970, i tedeschi avevano ottenuto l’organizzazione della successiva edizione del 1974. In vista della quale erano riusciti ad allestire uno squadrone.
A livello di club, tedeschi ed olandesi cominciavano a porsi come mine vaganti capaci di travolgere squadre fino a quel momento più prestigiose. Nel 1971 in Coppa dei Campioni l’Inter di Mazzola e Facchetti era stata travolta per 7-1 a Moenchengladbach dal semisconosciuto Borussia. Una lattina piovuta giù dagli spalti del settore tedesco che centrò il centravanti nerazzurro Boninsegna costò ai padroni di casa la ripetizione del match, e l’Inter finì per salvarsi (0-0 in Germania, 4-2 a Milano). Ma l’andamento ed il risultato del match annullato avevano destato comunque grande impressione, e dato il segnale che un’epoca stava forse finendo e tutto stava cambiando.
L’Ajax vinceva la Coppa con le Orecchie per tre volte di fila imponendo come miglior giocatore il suo Johann Cruyff, che qualcuno chiamava già il Pelé Bianco. Da quel Borussia M. era uscito fuori un giocatore ritenuto all’epoca non meno formidabile, quel Gunther Netzer capace per un breve periodo di oscurare in Nazionale tedesca perfino stelle del calibro di Franz Beckenbauer e Gerd Muller. Una specie di versione germanica di George Best, genio e sregolatezza.
Gli italiani sulla carta erano sempre quelli dell’Azteca, i vencidores della partita del secolo proprio contro la Germania e coloro che avevano messo paura al Brasile più forte di sempre in finale. La generazione che aveva riportato lustro e prestigio al calcio nostrano si apprestava a proseguire la sua strada di vittorie, ma in realtà cominciava a mostrare anzitempo i segni dell’usura. Il nostro campionato era all’epoca se non il più bello di sicuro il più difficile del mondo. Durante le qualificazioni europee, a Vienna, Gigi Riva aveva riportato la frattura di tibia e perone ad opera del terzino Hof. E senza Rombo di Tuono la nazionale azzurra era molto meno pericolosa.
Al ritorno dal Messico, i tifosi che avevano fatto la bocca al titolo mondiale avevano accolto gli azzurri con fischi e pomodori, festeggiando così il secondo posto. In particolare non era andata giù all’opinione pubblica la famosa staffetta tra Mazzola e Rivera, con i sei minuti finali giocati dall’asso milanista contro Pelé & c. che erano sembrati una beffa. Valcareggi non aveva intenzione di prestare di nuovo il fianco a critiche, né di correre rischi. Istintivamente, fece quello che fanno tutti gli allenatori che vengono da una grande prestazione passata: si affidò al blocco dei senatori, stavolta sistemando sia Rivera che Mazzola nello schieramento titolare, e rinviando esperimenti di talenti emergenti, come Franco Causio, Claudio Sala, Romeo Benetti, Fabio Capello, al dopo-Europeo.
La quarta edizione della Coppa Delaunay fu affidata al Belgio, che comunque dovette disputare le qualificazioni come tutte le altre 31 squadre partecipanti. Per la prima volta l’Europa poteva dirsi al completo, da Lisbona agli Urali. Otto gironi di quattro squadre videro la qualificazione ai quarti delle squadre migliori, con una sola sorpresa. La Romania ebbe ragione di una Cecoslovacchia in calo, l’Ungheria di una Francia ancora più in calo, l’Inghilterra della Svizzera, l’URSS si prese la rivincita su una Spagna in tono minore, il Belgio regolò il Portogallo, l’Italia Austria e Svezia, la Jugoslavia ebbe ragione di un’Olanda il cui calcio totale non era ancora sbocciato appieno (e questa fu la sorpresa), la Germania Ovest con la sua generazione di fenomeni ebbe ragione di una Polonia che si stava affermando come altrettanto fenomenale, a cominciare dal suo leggendario portiere Ian Tomaszevski.
Ai quarti si consumò il destino dell’Italia. In concomitanza con le fasi finali di un campionato combattuto ed estenuante che vide la Juventus di Bettega prevalere di un solo punto sul Milan di Rivera e sul Torino di Agroppi e Pulici, una squadra azzurra priva di energie affrontò il Belgio dell’astro nascente Van Himst e del catenaccio altrettanto nascente del mister Raimund Goethals, con cui l’allievo belga sperò il maestro italiano. 0-0 a San Siro e sconfitta per 2-1 al Park Astrid di Bruxelles, in quella che fu l’ultima partita in azzurro di Picchio De Sisti e la prima di Fabio Capello. Addio sogni di gloria.
Negli altri scontri, nuova rivincita della Germania Ovest sull’Inghilterra della finale del 1966. Dopo il 3-2 di Guadalajara, stavolta fu 0-0 a Londra e 3-1 a Berlino Ovest. L’Ungheria ebbe bisogno di ricorrere alla terza partita di spareggio per eliminare i rumeni. L’URSS travolse in casa la Jugoslavia per 3-0 dopo lo 0-0 di Belgrado, sembrando potersi riproporre con la stessa forza del passato.
In semifinale, fu proprio l’URSS la delusione, malgrado la vittoria sull’Ungheria per 1-0. Fu una partita tattica, noiosa, macchinosa tra due squadre che apparvero vecchie glorie, nobili decadute da un glorioso passato. Tutt’altra cosa la semifinale di Anversa, giocata da due squadre alle quali invece sembrava appartenere il futuro. Il sorteggio non era stato benevolo con il Belgio, mettendogli di fronte la Germania Ovest fin da subito. Malgrado la forza dei ragazzi di Goethals, essi si ritrovarono a sbattere nel muro alzato da quelli di Helmut Schon, che erano più forti di loro. E’ opinione comune che la Germania del 1972 fosse ancora più brillante ed in stato di grazia di quella che due anni dopo si sarebbe ripetuta vincendo il titolo mondiale a domicilio contro la leggendaria Olanda di Cruyff. Finì 2-1, con le reti tedesche ambedue segnate dall’altrettanto leggendario Gerd Muller, cannoniere mondiale destinato a restare sul trono fino all’avvento del fenomeno Ronaldo.
Il Belgio dovette accontentarsi della medaglia di bronzo, avendo ragione nella finalina dell’Ungheria. Il 18 giugno 1972, allo stadio Heysel di Bruxelles, uno stadio che sarebbe diventato tristemente famoso per noi italiani tredici anni dopo e che oggi è stato ribattezzato Re Baldovino per far dimenticare un nome che suscita orrore ancora oggi al pari di quello di Cernobyl, scesero dunque in campo la nazionale tedesca dell’ovest e quella sovietica.
Fu una partita senza storia, imbarazzante per la superiorità della nouvelle vague germanica contrapposta ad una squadra russa costruita sul blocco della Dinamo Kiev, i cui giorni migliori sembravano ormai lontani dietro le spalle. 3-0, Gerd Muller chiuse capocannoniere aggiungendo altre due reti e finendo a quattro complessive. Franz Beckenbauer alzò finalmente il primo trofeo della sua carriera(foto sotto), che non era destinata comunque a concludersi lì.
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