Nella foto: Československo 1976
Se l’edizione del 1972 era rimasta nella storia come una delle più spettacolari (grazie soprattutto alla Germania Ovest di Helmut Schön, in stato di grazia), quella successiva al contrario andò in archivio come una delle meno divertenti in assoluto.
Eppure, le premesse perché quella del 1976, la quinta, fosse un’edizione memorabile c’erano tutte. I quattro anni trascorsi avevano visto l’affermazione definitiva ed epocale del calcio totale, praticato un po’ in tutto il Nord Europa, ma celebrato soprattutto dal Profeta Johann Cruyff e dai suoi apostoli in maglia orange.
Al mondiale tedesco di due anni prima, l’Olanda era stata la grandissima novità. Una squadra di fuoriclasse come non si vedeva più dai tempi della Grande Ungheria. Undici giocatori (ed alcune riserve assolutamente all’altezza) assolutamente non vincolati a ruoli e schemi precisi, tutti che sapevano fare tutto. Tutti che facevano tutto benissimo.
La finale di Monaco di Baviera aveva fatto impallidire il ricordo di quella dell’Azteca di Città del Messico. Alla fine aveva vinto la Germania Ovest padrona di casa, schierando l’undici di Bruxelles con Overath al posto del genio e sregolatezza Netzer. Una squadra niente male anche quella dei bianchi, anche se il mondo intero aveva tifato per gli orange, dopo essersi stropicciato gli occhi alle loro giocate ed appassionato alle loro imprese. La maglia numero 14 di Cruyff era finita sulle spalle dei ragazzini di mezzo pianeta.
L’appuntamento europeo del 1976 sembrava fatto apposta per consentire la rivincita di Monaco. Olanda e Germania Ovest erano ancora le squadre più forti del continente e continuavano a dimostrarlo ad ogni uscita, anche se i segni del declino (sia tedesco che olandese) si intravedevano all’orizzonte. L’Arancia Meccanica in particolare cominciava a battere in testa per alcune ruggini di spogliatoio (soprattutto nei riguardi del Pelé Bianco Cruyff che se n’era andato a giocare da anni a Barcellona salutando il suo paese). Tra i tedeschi, insostituibile il bomber Gerd Muller che aveva dato addio alla propria nazionale dopo il mondiale, mentre era al canto del cigno anche Kaiser Franz Beckenbauer.
L’Italia affrontò le qualificazioni europee in piena fase di rifondazione. Dopo il disastro di Stoccarda, il nuovo coach Fulvio Bernardini dette il benservito ai senatori della generazione messicana e chiamò in maglia azzurra i migliori giovani del campionato, ripartendo da zero come non era successo nemmeno dopo la Corea. Il sorteggio non era stato fortunato. La giovane Italia di Bernardini e Bearzot era stata inserita in un girone che comprendeva oltre ai vicecampioni del mondo olandesi anche la Polonia di Tomaszewski, Szarmach, Lato e Deyna, la splendida squadra che ci aveva eliminati in Germania. Chiudeva il girone 5 una Finlandia che si sarebbe dimostrata per nulla una squadra materasso. Passava ai quarti, purtroppo, come sempre una sola squadra.
L’esordio azzurro agli Europei avvenne a Rotterdam. E fu un grande esordio, malgrado la prevedibile sconfitta. Il vecchio Boninsegna portò addirittura in vantaggio l’Italia. Prima che Rensembrink e Cruyff ristabilissero i valori in campo, gli azzurri sembrarono rubare la scena agli orange. In particolare, una giovane mezzala si sarebbe guadagnato a fine partita gli elogi nientemeno che di sua maestà Johann Cruyff. Si chiamava Giancarlo Antognoni, sulle spalle aveva la maglia che era stata di Gianni Rivera e che per 73 partite (compreso un titolo mondiale) nessuno gli avrebbe più tolto.
Fu un girone abbastanza equilibrato, tutto sommato. L’Olanda marciava a ritmo balbettante, dando modo agli avversari di starle alle costole. L’Italia pareggiò sia a Roma che a Varsavia con la Polonia per 0-0, vendicando parzialmente Stoccarda. Alla fine, a farle costare la qualificazione più che la sconfitta in Olanda fu il pareggio interno sempre per 0-0 con la Finlandia, battuta poi a Helsinki per 1-0. Nell’ultima partita all’Olimpico, l’Italia ritrovò l’Olanda senza più possibilità di sopravanzarla. Ma la Polonia avrebbe potuto farlo, per differenza reti. Gli orange, subito il gol del vantaggio italiano da Capello, imbastirono la più clamorosa melina della storia nascondendo il pallone agli italiani (che stavano dando segni di incoraggiante ripresa anche in questa circostanza) per buona parte dei novanta minuti. L’Italia dovette rimandare i suoi sogni di gloria ad un futuro che non era lontano, l’Olanda passò ai quarti pur avendo rinunciato a giocare come sapeva.
Assieme ad un’Olanda meno totale del solito, arrivarono ai quarti la Cecoslovacchia, capace di imporsi su un’Inghilterra in fase calante e sul Portogallo che aspettava ancora l’erede di Eusebio, il sorprendente Galles ai danni di Austria ed Ungheria, la Jugoslavia facile sull’Irlanda del Nord di George Best e la Svezia, la Spagna regolare su Romania, Scozia e Danimarca, l’URSS di misura sull’Irlanda e sulla Turchia, il Belgio senza problemi contro la Germania Est (che due anni prima aveva vinto a sorpresa lo storico ed unico derby con i cugini dell’ovest) ed i cugini della Francia, la Germania Ovest senza problemi su Grecia e Bulgaria.
Nei quarti, che dovevano stabilire le quattro semifinaliste ed il paese ospitante la fase finale, la Cecoslovacchia si prese una rivincita sull’URSS che aspettava da tempo, almeno otto anni, e che aveva poco di sportivo. I sovietici erano in fase di declino storico, malgrado il blocco della loro nazionale provenisse dalla Dinamo Kiev di Oleg Blochin, Pallone d’Oro 1975 e vincitore nello stesso anno di Coppa UEFA e Supercoppa europea contro il Bayern Monaco. La Cecoslovacchia invece non aveva prime donne, ma il suo collettivo era solido, e proprio nei giorni dell’Europeo 1976 stava giungendo a maturazione.
Sugli altri campi, la Germania Ovest superò la Spagna (pareggio 1-1 a Madrid, vittoria 2-0 in Germania). La Jugoslavia fece altrettanto con il Galles. Nel derby del Benelux, gli olandesi surclassarono i belgi sia all’andata nelle Fiandre (2-1) che al ritorno nei Paesi Bassi (5-0). Alle semifinali passavano dunque Cecoslovacchia, Jugoslavia, Germania Ovest ed Olanda.
Si trattava ora di scegliere il paese organizzatore di semifinali e finali. L’UEFA poteva scegliere l’Olanda (la Germania aveva organizzato da poco Mondiali ed Olimpiadi), oppure ritenere che i tempi fossero maturi per andare all’Est. Lo fece, optando per quello dei paesi di Oltrecortina che sembrava il meno distante dalla metà occidentale del continente. La Jugoslavia del maresciallo Tito aveva rotto con il Patto di Varsavia dal 1948, in piena epoca staliniana. E per quanto il suo regime di professasse dichiaratamente comunista, il paese era in lizza per la leadership dei cosiddetti non allineati con l’India di Indira Gandhi e la Cuba di Fidel Castro.
Dal 16 al 20 giugno 1976 nella penisola balcanica andò dunque in scena l’atto finale della quinta edizione della Coppa Henri Delaunay. Non fu un grande spettacolo, il maltempo infierì particolarmente sulla manifestazione, il gioco ne risentì a prescindere dalla scarsa vena di alcuni suoi attesi protagonisti e dalla cornice poco suggestiva del socialismo reale.
A Zagabria, nella prima semifinale una Cecoslovacchia operaia ma implacabile eliminò clamorosamente la squadra che aveva fatto sognare il mondo. Gli olandesi uscirono dal campo con le ossa rotte, 3-1 il punteggio finale. Nessuno ancora lo sapeva, ma il mito degli orange finiva lì. Due anni dopo in Argentina l’Olanda si sarebbe di nuovo issata ad una difficile finale contro i padroni di casa (singolare destino che si ripeteva), ma non sarebbe più stata la stessa cosa. Senza Cruyff, che di lì a poco avrebbe dato l’addio al calcio, non poteva esserlo.
A Belgrado, la Germania Ovest mise rapida fine ai sogni dei padroni di casa di arrivare a quel titolo sfuggito loro nel 1960 a Parigi. 4-2, reti di Flohe, centravanti emergente dello Schalke 04, e di un Muller che non era più il leggendario Gerd, ma piuttosto il giovane Dieter, giovane promessa del Colonia. Sembrava che una nuova generazione di panzer potesse subentrare subito alla vecchia. Non era così.
Dopo che nella finalina l’Olanda aveva salvato almeno l’onore superando la Jugoslavia per 3-2, a Belgrado il 20 giugno scesero in campo i campioni in carica tedeschi contro i cecoslovacchi. I pronostici erano tutti per il bis della Germania. Ma i cecoslovacchi aspettavano anche questa di rivincite, e da più tempo che con i sovietici. E la condizione di squadra era dalla loro.
2-0 dopo 25 minuti, i cechi sembrarono fare un sol boccone dei tedeschi, senza riguardi. Ma i tedeschi come sempre non ci stettero a dichiararsi morti, e rimontarono fino al 2-2 all’ottantesimo. Il regolamento non era più quello delle edizioni passate, ed aveva introdotto la lotteria dei calci di rigore, anziché la ripetizione della partita come era successo a Roma nel 1968.
Sul dischetto andarono Masny, Nehoda, Ondrus, Jurkemik e Panenka per la Cecoslovacchia, tutti infallibili. Per i tedeschi dopo i centri di Bonhof, Flohe e Bongartz, toccò al veterano Uli Hoeness commettere l’errore decisivo, e disperarsene in eurovisione.
Non era stato un grandissimo Europeo, ma la Coppa tornava di nuovo ad Est. L’aveva sognata la Jugoslavia, la portava a casa una Cecoslovacchia che l’aveva meritata e che l’avrebbe difesa onorevolmente.
27La Coppa e le maglie bianche tedesche sulle spalle dei nuovi padroni
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