1984. Un anno atteso a lungo, almeno da tutti coloro che avevano letto George Orwell, ed erano curiosi di scoprire se il mondo sarebbe stato effettivamente governato da un Grande Fratello, come aveva preconizzato lo scrittore britannico. Al di là di ogni previsione fantascientifica, il calcio si avviava a diventare un fenomeno mediatico di tale importanza da spiazzare chiunque avesse in mente un futuro dominato dalle macchine. Le uniche macchine dominanti in quel periodo erano le Formula Uno, nel cui campionato di categoria era tornato a trionfare Niki lauda, l’ex pilota-robot che si era scoperto uomo, con tutte le debolezze del caso, dopo il terribile incidente al Nurburgring.
Quell’anno si celebrarono tante cose. A cominciare dalla riscossa americana dopo il decennio nero seguito alla sconfitta in Vietnam, con le Olimpiadi di Los Angeles che celebrarono il nuovo corso reaganiano ed in occasione delle quali una Unione Sovietica sempre più in difficoltà restituì assieme ai propri alleati il boicottaggio ricevuto quattro anni prima nell’edizione moscovita.
Gli atleti a stelle e strisce dominavano un po’ ovunque, nel nuovo scorcio del secolo americano. John McEnroe aveva rivoluzionato il mondo del tennis come Carl Lewis aveva rivoluzionato quello dell’atletica, mancando per un soffio quel Grande Slam che invece era riuscito al Figlio del Vento, per la prima volta dai tempi di Jesse Owens. Soltanto nel calcio, malgrado la breve effimera stagione dei Cosmos di New York, gli U.S.A. rimanevano ai margini, senza nessuna prospettiva immediata di primeggiare. Le superpotenze mondiali del football restavano altre, anche se le gerarchie si stavano lentamente modificando.
Due anni prima la Spagna aveva celebrato la propria rinascita civile organizzando un mundial di grande successo. Le Furie Rosse non erano riuscite a vincerlo, fermate nei quarti dalla Germania Ovest poi finalista. Al loro posto il Santiago Bernabeu, diventato per l’occasione uno stadio quasi interamente italiano, aveva incoronato i sorprendenti ragazzi di Enzo Bearzot, che dopo un avvio stentato avevano infilato una dopo l’altra Argentina, Brasile e Polonia, per poi matare nell’atto conclusivo anche i tedeschi.
L’Italia aveva raggiunto a tre titoli vinti il Brasile in testa all’Albo d’Oro, quando ormai sembrava che ai primi due mondiali vinti durante l’epoca fascista non ne avrebbe fatto seguito nessun altro. La delusione dell’europeo casalingo dell’80 era stata ampiamente cancellata. L’Italia delle tre stelle si poneva come favorita d’obbligo anche per l’Europeo che si sarebbe disputato in Francia due anni dopo. L’UEFA infatti aveva deciso di optare per un nuovo bis. Toccava di nuovo alla Francia, dopo l’edizione inaugurale del 1960.
La prima volta, i transalpini erano rimasti scottati dalla rimonta subita in semifinale dalla Jugoslavia. La squadra di Fontaine, quarta ai mondiali del 1958 non era riuscita a confermare la buona prestazione svedese in casa propria. Stavolta i bleus si presentavano ai nastri di partenza (ammessi di diritto come paese organizzatore, secondo il nuovo regolamento introdotto a Italia 80) con una squadra ancora più forte.
A Spagna 82, i francesi erano stati secondi soltanto agli azzurri quanto all’impressione positiva destata dal loro gioco. Quando sembravano però con un piede già in finale, la Germania di Karl Heinz Rummenigge li aveva rimontati, superandoli poi ai calci di rigore. Restavano però negli occhi di tutti le giocate dei suoi centrocampisti di gran classe. A cominciare da le Roi Michel, quel Platini che da due anni era approdato alla corte dell’Avvocato Agnelli a far più grande la Juventus. Completavano la mediana di lusso francese l’altro oriundo Genghini, quindi Alain Giresse e Jean Tigana. Battere quella Francia in casa propria non si presentava stavolta come un compito affatto facile.
Le qualificazioni a Euro France 84 erano destinate a fornire un’unica grande sorpresa. Che purtroppo ci riguardava da vicino. I campioni del mondo in carica avevano esaurito il loro ciclo leggendario al Bernabeu. La loro epopea si era chiusa lì, nel giro di campo con la coppa FIFA sollevata alta al cielo. Dopo quattro anni di vittorie e spettacolo la generazione di fenomeni scoperta da Fulvio Bernardini e cresciuta da Enzo Bearzot giunse di schianto al capolinea proprio alla ripresa delle gare ufficiali nell’autunno 1982. La Cecoslovacchia prima e la Romania poi vennero a cogliere in Italia due pareggi abbastanza facili. Il selezionatore friulano non volle o non seppe avviare tempestivamente degli avvicendamenti nei ruoli che ne abbisognavano. La gratitudine fece premio sulla necessità. Nel giugno dell’83 la Svezia venne a stravincere a Napoli per 3-0, mettendo fine al ciclo azzurro ed alla possibilità per una rappresentativa italiana di staccare comunque il biglietto per Parigi. A ottobre, la sconfitta per 2-0 in Cecoslovacchia fu l’ultima partita in azzurro di Giancarlo Antognoni, nove anni dopo il suo esordio. In Romania il mese successivo, l’1-0 al passivo costò il posto ad altri suoi compagni. Gli eroi di Argentina e Spagna non c’erano più.
Negli altri gironi, continuava la crisi dell’URSS che lasciava via libera al Portogallo, quella dell’Inghilterra che si inchinava alla Danimarca, mentre la Jugoslavia si lasciava dietro il Galles, il Belgio la Svizzera, la Germania Ovest l’Irlanda del Nord e la Spagna un’Olanda che viveva una fine di un ciclo non meno dolorosa e pesante di quella dell’Italia.
A Parigi, furono sorteggiati dunque due gironi eliminatori, che comunque avrebbero prodotto due semifinaliste incrociate, anziché due finaliste secche come in Italia quattro anni prima. Altra novità regolamentare, l’eliminazione della finalina per il terzo posto, un inutile orpello di cui non interessava nulla a nessuno.
Nel gruppo A, assieme alla Francia si allinearono Jugoslavia, Belgio e Danimarca. Nel match inaugurale, il 12 giugno 1984 al Parco dei Principi, toccò proprio alla forte squadra danese di Laudrup, Berggreen ed Elkjar Larsen affrontare i padroni di casa contro i favori del pronostico. Il selezionatore danese, il tedesco Sepp Piontek, preoccupato dalla forza dei funamboli avversari, pensò bene di sacrificare un uomo importante come Berggreen in marcatura su Platini. Alla fine non gli valse a nulla, Roi Michel trovò il modo di andargli via almeno una volta, segnando il gol della vittoria francese.
Il resto del girone trascorse con un botta e risposta franco-danese: cinque gol dei bleus ai cugini belgi, cinque dei danesi agli spenti jugoslavi; poi 3-2 dei danesi ai belgi, e poi vendetta della semifinale del 60 con lo stesso punteggio, 3-2 della Francia sulla Jugoslavia. Francia e Danimarca in semifinale come prima e seconda.
Nel gruppo B, la Germania Ovest dimostrò di aver perso smalto anch’essa rispetto al mondiale. Pareggio a reti bianche con il Portogallo, vittoria per 2-1 sulla Romania, sconfitta di misura con la Spagna. La qualificazione finì per diventare un affare interno alla penisola iberica: prima la Spagna, secondo il Portogallo.
In semifinale, i francesi rischiarono un nuovo dramma sportivo, come 24 anni prima, come due anni prima. Andati in vantaggio con Domergue al ’24, furono ripresi da Jordao al ’74 e superati all’8 del primo tempo supplementare sempre dallo stesso Jordao. Quando già il Parco dei Principi stava vedendo le streghe, a sei minuti dalla fine del secondo supplementare pareggiò ancora Domergue. Toccò a Sua Maestà Platini liberare dall’angoscia un’intera nazione un minuto prima dei calci di rigore.
Nell’altra semifinale, invece, i calci di rigore furono necessari per stabilire l’avversaria dei francesi in finale. In vantaggio al ‘7 con Lerby, la Danimarca si fece raggiungere al ’67 da Maceda. La serie dei penalties fu interrotta negativamente da Elkjar Larsen, uno dei migliori, al quinto ed ultimo rigore prima dell’oltranza. In finale andava la Spagna, per un confronto inedito almeno ai vertici del calcio europeo.
Il 27 giugno al Bois de Boulogne scesero in campo una squadra spagnola che rincorreva un successo da esattamente vent’anni ed una francese che lo rincorreva da sempre. Stavolta i bleus avevano più qualità delle Furie Rosse, la Francia aveva la generazione giusta per finalmente trionfare. Gli spagnoli la misero sul piano della corsa furibonda come spesso in passato, ai francesi bastò liberare con calma l’estro della sua linea mediana. E consacrare Michel Platini numero uno d’Europa e capocannoniere della manifestazione. In gol al ’57 e poi assist-man al ’90 a vantaggio di Bellone.
Re Juan Carlos di Borbone doveva aspettare ancora per ricevere la Coppa dal capitano della sua nazionale. Toccava a Francois Mitterand l’onore di essere il primo capo di stato francese a presenziare ad un successo sportivo di quella portata del proprio paese. Il sogno di Henri Delaunay si avverava quasi trent’anni dopo la sua scomparsa.
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