Il calcio moderno era entrato nel suo terzo secolo di vita, da quando degli studenti dei college inglesi avevano riscritto le regole del gioco inventato nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. E ormai la sua casa era tutto il mondo.
Nell’ultimo mondiale prima del nuovo millennio, la Francia aveva finalmente coronato il suo sogno di applicare la sua nozione di grandeur anche al football. Zidane aveva superato Platini (malgrado qualche intemperanza a cui avrebbe anche in seguito dimostrato di essere incline) portando i bleus sul tetto del mondo. L’avversaria più tosta sulla strada che portava la Coppa FIFA sugli Champs Elysées si era rivelata l’Italia di Cesare Maldini, l’uomo che aveva rilevato il celebratissimo Arrigo Sacchi sulla panchina azzurra dopo il secondo disastro inglese della storia del calcio italiano. Cesarone era reduce da tre Europei vinti con i ragazzini, gli under 21 di cui – al pari degli atleti olimpici – la patria si ricordava solo quando riportavano a casa qualche medaglia.
Cesare Maldini non aveva verbi da predicare. La sua intensità veniva da lontano, da un calcio semplice e tuttavia vincente che aveva issato l’Italia ai gradini più alti del palmares calcistico fin dai tempi eroici di Vittorio Pozzo. L’ultimo eroe della generazione del Piave aveva fatto tremare Zidane & C. portando Roberto Baggio a sfiorare il golden gol ai supplementari di un Italia – Francia che per poco non aveva visto ripetersi l’esito di quello del 1938. Sconfitto soltanto ai rigori, la maledizione dell’Italia di quegli anni, Maldini aveva dato le dimissioni, uno dei pochi italiani in assoluto a farlo.
Sulla panchina azzurra si era andato a sedere un altro mostro sacro. Dino Zoff era uno degli eroi di Madrid. Nel 1982 il francobollo commemorativo che ritraeva le sue mani che innalzavano la Coppa del Mondo era diventato più celebre e pregiato di un quadro di Modigliani o di De Chirico. Come Maldini, Zoff si era rivelato allenatore senza pretesa di predicazione di nuove religioni calcistiche, ma saggio e capace come pochi. Una nuova generazione di campioni si stava affermando, con alla testa punte di diamante come Francesco Totti e Christian Vieri.
Era di nuovo tempo di Europei, nell’anno 2000. FIFA e UEFA, consapevoli della importanza che stavano assumendo le competizioni internazionali per rappresentative nazionali e le difficoltà organizzative che d’altro canto comportavano, avevano introdotto una innovazione significativa consentendo a due paesi di consorziarsi per ospitare quegli eventi. Così, il primo mondiale del terzo millennio era previsto nel 2002 in joint venture tra Corea del Sud e Giappone. Il primo europeo era stato assegnato a Belgiolanda.
Tecnicamente, titolari della manifestazione erano i Paesi Bassi, la finale essendo prevista per il 2 luglio di quell’anno a Rotterdam. Di fatto, l’undicesima edizione della Coppa Delaunay aveva due paesi ospitanti, e quindi due squadre di casa. Sufficientemente forti entrambe per ambire al trionfo finale. Due nazionali quindi erano qualificate di diritto, i posti a disposizione da conquistare attraverso le qualificazioni scendevano a quattordici.
L’Italia per una volta disputò un girone di qualificazione senza infamia e senza lode, ma anche senza patemi. Prese subito il largo su Danimarca e Svizzera, tirando poi i remi in barca a qualificazione acquisita. Dietro gli Azzurri si piazzarono i danesi, costretti poi agli spareggi con Israele come peggiori seconde.
Negli altri gruppi, Norvegia e Slovenia, Germania e Turchia, Francia e Ucraina, Svezia e Inghilterra, Spagna e Israele, Romania e Portogallo, Jugoslavia ed Eire, Repubblica Ceca e Scozia. Passavano direttamente le prime e la migliore delle seconde, il Portogallo. Le ultime quattro uscirono dagli spareggi, dove appunto la Danimarca surclassò Israele, l’Inghilterra vinse il derby britannico con la Scozia di misura, la Slovenia sempre di misura superò l’Ucraina e la Turchia prevalse sull’Eire in virtù del gol segnato fuori casa.
La fase finale anche a Belgiolanda 2000 prevedeva quattro gironi da quattro squadre ciascuno. Quattro teste di serie, Germania campione in carica, Belgio e Olanda come paesi organizzatori, Spagna in virtù del ranking mondiale. L’Italia fu sorteggiata nel gruppo del Belgio, assieme a Svezia e Turchia. I tedeschi pescarono inglesi, portoghesi e rumeni. L’Olanda ebbe Francia, Rep. Ceca e Danimarca, mentre alla Spagna toccarono Norvegia, Jugoslavia e Slovenia.
Euro2000 fu, in quella prima fase, una specie di cimitero degli elefanti. Un ecatombe di campioni e finaliste delle precedenti edizioni. Cominciò la Germania, che aveva vinto l’edizione precedente per bravura ma anche e soprattutto sfruttando diverse circostanze favorevoli. I tedeschi pareggiarono con la Romania, persero seccamente con il Portogallo e concessero all’Inghilterra una rivincita della semifinale del 1996. Un 1-0 assolutamente inutile anche per gli inglesi, che avendo perso a loro volta con portoghesi e romeni tornarono a casa insieme ai rivali di sempre. Il gruppo A si chiudeva con l’eliminazione di due strafavorite.
Nel gruppo B, l’Italia si prese una rivincita sul Belgio che aspettava da diverse occasioni passate. Con le vittorie su turchi e svedesi gli azzurri chiusero al primo posto nel girone. Al secondo posto a sorpresa la Turchia, mentre Svezia e Belgio, protagoniste in varie edizioni precedenti, tornavano a casa. O per meglio dire, nel caso del Belgio, restavano a casa, a guardare gli altri giocare.
Nel gruppo C, la Spagna tentò di complicarsi la vita perdendo il match d’avvio con la Norvegia, che già aveva fatto vedere i sorci verdi all’Italia al mondiale francese. Gli spagnoli si ripresero regolando di misura la Slovenia e battendo 4-3 la Jugoslavia, che passò il turno accodandosi a loro avendo pareggiato per 3-3 il derby balcanico con gli sloveni.
Nel gruppo D, l’Olanda sembrava tornata il rullo compressore delle due generazioni di fenomeni precedenti. 1-0 ai cechi finalisti del ’96, 3-0 ai danesi vittoriosi nel ’92, 3-2 ai francesi campioni del mondo nel ’98. Gli orange sembravano tornati quelli che incantavano toccando la palla, ed il loro gioco spettacolare e veloce sembrava destinato a sfruttare positivamente l’occasione del torneo organizzato in casa. Dietro di loro, si qualificò una Francia appannata rispetto a due anni prima ma comunque capace di tenersi insieme, superando ed eliminando Rep. Ceca e Danimarca.
Nei quarti, Francia ancora di misura sulla Spagna grazie all’estro di Zidane e Djorkaeff. Italia senza problemi con la Romania grazie all’estro di Totti e di Inzaghi. Portogallo sul velluto con la Turchia grazie al talento di Nuno Gomes, imbeccato da fuoriclasse come Figo e Rui Costa. Olanda a valanga sulla Jugoslavia per 6-1. Impressionante.
La pur bella Italia di Dino Zoff non godeva affatto i favori del pronostico quando scese in campo ad Amsterdam il 29 giugno del 2000 per disputare la semifinale contro i padroni di casa. L’andamento del match confermò quel pronostico almeno per tutto il tempo regolamentare ed i supplementari, con gli azzurri che riuscirono a tenere inchiodati allo 0-0 gli orange in virtù di circostanze che ebbero quasi del miracoloso.
L’arbitro tedesco Merk dopo mezz’ora espulse Zambrotta, lasciando l’Italia in dieci contro un’Olanda che sembrava una pattuglia di Spitfire che attaccava in picchiata, a folate. Zenden, De Boer, Kluivert sembravano incontenibili. Un primo fallo in area costò il calcio di rigore che Toldo riuscì a parare a De Boer al ’40. Un secondo rigore fu fischiato in favore degli olandesi al ’62, e stavolta fu Kluivert a spedirlo sul palo.
Ma non era tutto. Scongiurata la conclusione al golden gol, si andò alla lotteria dei tiri dal dischetto. E si confermò che quel giorno gli dèi che sovrintendono ai calci di rigore avevano maledetto l’Olanda. Per primo andò a tirare Di Biagio, l’uomo che aveva condannato la sua squadra a Saint Denis due anni prima. Stavolta Gigi non sbagliò, mentre fu de Boer a fallire il secondo penalty di giornata. Pessotto fece 2-0 per gli azzurri, un 2-0 che rimase tale per l’errore di Stam.
Toccava a Totti. Francesco decise di scrivere quel giorno una delle pagine più significative della sua leggenda calcistica. Mo’ je faccio er cucchiaio, sibilò ai compagni avviandosi verso il dischetto del rigore. E così fu. Van der Saar da una parte e palla a cucchiaio irridente sopra di lui. 3-0, Totti nella leggenda e Toldo con il primo match ball sui guantoni. Segnò Kluivert, sbagliò Paolo Maldini, ma due errori erano troppi da recuperare per gli olandesi, che quel giorno non erano grati agli dèi. L’ultimo rigore di Bosvelt volò alto. L’Italia era in finale per la prima volta dal 1968, l’Olanda era in ginocchio.
Nell’altra semifinale, la Francia aveva prevalso su un bel Portogallo per 2-1, impressionando per solidità più che per il gioco. Zidane guidava una legione straniera che era meno brillante rispetto a due anni prima, ma che come la Germania quattro anni prima era difficilissimo battere.
Gli azzurri volevano e cercarono la rivincita di Saint Denis. E sembrarono riuscire ad averla per quasi 93 minuti di gioco. Al ’55 Del Vecchio portò in vantaggio l’Italia, che poi sembrò poter gestire grazie ai piedi buoni di Totti & c. Al terzo minuto supplementare, Zidane riuscì per un attimo a liberarsi dalla gabbia che i compagni di squadra bianconeri gli avevano allestito e servì Wiltord, che con un tiro senza troppe pretese pareggiò. Qualcuno paragonò il gol preso da Toldo a quello subito da Galli da parte di Maradona a Mexico 86, un errore di valutazione. Comunque fosse, com’era già successo a Dorando Pietri, la sorte aveva voltato le spalle agli azzurri a pochi centimetri dal traguardo.
Ai supplementari, l’Italia era stanca e forse anche un po’ scossa nel morale. L’occasione del golden gol toccò a David Trezeguet, che come Oliver Bierhoff quattro anni prima non sbagliò, dando la vittoria alla squadra meno bella forse ma più solida. Al secondo posto del palmares europeo con due vittorie contro le tre tedesche ci andava dunque la Francia, mentre l’Italia doveva rimandare un appuntamento atteso da 32 anni.
Al ritorno in patria, siparietto inusuale con il Presidente del Consiglio Berlusconi che attaccò il Commissario tecnico Zoff criticando aspramente la sua improvvida decisione di non far marcare a uomo Zinedine Zidane. Zoff la prese malissimo rassegnando dimissioni immediate. L’opinione pubblica restò con l’impressione che le cose fossero andate troppo al di là del merito della questione e dello spirito del momento, sottintendendo che la ruggine affiorata tra i personaggi coinvolti avesse radici magari diverse e più lontane.
Come Valcareggi nel 1970, Dino Zoff pagò dunque un secondo posto di extra-lusso, anche se stavolta nessuno gli tirò i pomodori all’aeroporto. Sulla sua panchina andò a sedersi Giovanni Trapattoni, che quei pomodori li aveva quasi presi in faccia a Firenze, reo secondo la tifoseria locale di non aver vinto nulla con quella che sarebbe rimasta la miglior Fiorentina per tanto tempo a venire.
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