Calcio

Storia dei Mondiali di calcio: Brasile 2014

Brasil. Da quando le nazioni della Terra avevano ripreso a confrontarsi sul campo di calcio invece che su quello di battaglia, si era diffusa rapidamente una nuova mitologia. Si narrava di una terra favolosa, dove tutti sapevano giocare a calcio, dove tutti giocavano a calcio meglio di chiunque altro sotto il cielo. La Terra degli Dei del Pallone.

MondialeBrasile2014-001Da quando Amerigo Vespucci aveva esplorato per primo le sue coste, seguito poi dal portoghese Pedro Alvares Cabral che ne aveva preso possesso in nome di Sua Maesta Manuel I re del Portogallo detto O Venturoso con la benedizione di Papa Alessandro VI Borgia, erano passati esattamente quattrocento anni fino al giorno in cui lo studente paulista Charles Miller aveva riportato dall’Inghilterra, dove studiava in un college, due palloni e le regole del football, dando ufficialmente inizio all’epopea del calcio brasiliano.

Negli anni della Preistoria, il Brasile era salito alla ribalta solo in occasione di una comparsata ai mondiali francesi del 1938 dove aveva raggiunto la semifinale, da cui era uscito sconfitto per mano dell’Italia poi divenuta campione del mondo. La storia vera e propria della nazionale carioca era cominciata nel 1950, quando aveva organizzato in casa propria il primo mondiale del secondo dopoguerra. Era una storia che si sarebbe ammantata appunto di leggenda. Ma come ogni mitologia che si rispetti, prese il via da un peccato originale. Il Maracanazo.

La squadra di casa, capitanata dal mitico Danilo, pensava di fare un sol boccone del resto del mondo, vendicando la sconfitta di anteguerra subita dall’altrettanto mitico Leonidas. Nella partita conclusiva, giocata nel nuovo stadio di Rio de Janeiro, il Maracanà costruito apposta per l’occasione, le bastava un pareggio contro l’Uruguay. Ma la celeste aveva giocatori altrettanto mitici se non di più, e con Schiaffino prima e Ghiggia poi gelò l’entusiasmo del più grande e più potente vicino, catapultandolo nella disperazione più nera.

O maracanazo

O maracanazo

Il Brasile mantenne il tempio del calcio malgrado l’esordio maledetto, cambiò casacca alla Nazionale che si era macchiata della sconfitta con gli uruguagi, dal bianco al verdeoro, e si rituffò a capofitto nelle competizioni internazionali, convinto che prima o poi la gloria sarebbe arrivata a risarcirlo con gli interessi. E la gloria arrivò, insieme alla Perla Nera, Pelé, O Rey, ed a tutta una generazione di fenomeni che andò a vincere il primo mondiale in Europa, impresa mai più eguagliata da nessun’altra squadra. Dalla Svezia del 1958 alla Corea del 2002 il mito del Brasile pentacampeao, del paradiso del futebol, fu costruito anno dopo anno, vittoria dopo vittoria da una serie infinita di fuoriclasse da fare invidia a qualsiasi altro paese.

Ma c’era sempre quel peccato originale, come un tarlo fastidioso che impediva di godere fino in fondo di 60 anni di spettacolo e trionfi. O Maracanazo andava vendicato, e poi definitivamente dimenticato, nei secoli dei secoli. Il Brasile voleva un nuovo mondiale in casa propria, e – ciò era sottinteso – voleva vincerlo, anzi stravincerlo. Il sesto titolo avrebbe rafforzato nel ventunesimo secolo la sua leadership sul calcio mondiale. La candidatura fu avanzata negli stessi giorni della conquista del quinto alloro da parte di Ronaldo & soci. Ma c’erano altri candidati forti, come la Germania ed il Sudafrica. Non si poteva dire di no all’Adidas e ad altre multinazionali tedesche, né a Nelson Mandela, così fu trovato l’accordo di far disputare la Coppa in successione nei tre paesi. Ai sudamericani sarebbe toccata nel 2014.

MondialeBrasile2014-003Non c’era che attendere, con la consapevolezza che la ventesima edizione della Coppa F.I.F.A. di calcio sarebbe stata insieme un grande spettacolo ed una pura formalità, almeno per quanto riguardava l’assegnazione del titolo. La Coppa sarebbe tornata nella Terra del Dio Pallone nel giugno del 2014 e vi sarebbe rimasta per almeno quattro anni, nessuno lo dubitava.

Il quadriennio che portò da Johannesburg a Rio de Janeiro fu il periodo di regno della Spagna, divenuta un vero e proprio El Dorado del calcio. Le Furie Rosse vincevano tutto, seguiti a livello di club da Barcellona e Real Madrid. Nel 2012 portarono a casa il secondo Europeo consecutivo, il terzo in assoluto, andando a trionfare a Kiev a spese dell’Italia. Gli azzurri avevano ben figurato contro di loro nella prima partita nel girone di qualificazione, conclusa in parità. Ma nella finale avevano dovuto inchinarsi alla maggior classe spagnola, concretizzatasi in un 4-0 che non ammetteva repliche. La Spagna sembrava l’unico serio avversario del Brasile. I Conquistadores speravano di soggiogare anche la ex colonia portoghese.

L’Italia, che tutto sommato non aveva meritato i quattro gol di scarto dagli spagnoli, proveniva da un quadriennio di luci ed ombre. Il nuovo tecnico, Cesare Prandelli, veniva dalla Fiorentina che aveva guidato per cinque stagioni con buoni risultati che ne avevano fatto l’allenator giovane più promettente del calcio nostrano. Dalla Panchina d’Oro alla panchina azzurra il salto era sembrato breve, anche se favorito da un burrascoso divorzio con i patron viola, i fratelli Della Valle.

Balotelli - Prandelli, Italia a brandelli

Balotelli – Prandelli, Italia a brandelli

Malgrado un esordio infausto contro la Costa d’Avorio, la fiducia in Prandelli riposta dalla Federazione era sembrata ben riposta. L’argento all’Europeo conquistato battendo l’Inghilterra e la fortissima Germania grazie ad un Balotelli in stato di grazia era sembrato un risultato prestigiosissimo, ancorché insperato. Erano perfino passate in second’ordine alcune polemiche circa le scelte sbagliate di Prandelli in finale, allorché si era rifiutato di accantonare alcuni senatori acciaccati a vantaggio di nuove e più fresche leve.

Il girone eliminatorio in vista di Brasile 2014 era stato sorteggiato da una mano benevola per l’Italia.  Danimarca, Rep. Ceca, Bulgaria, Armenia e Malta non potevano dirsi avversari trascendentali. Gli azzurri si erano qualificati senza problemi e senza sconfitte, anche se rispetto al biennio precedente era emersa la difficoltà da parte di Prandelli di trovare un nuovo modulo basato su un nuovo gruppo. In una parola, il tecnico azzurro era parso, a torto o a ragione, intenzionato a confidare sugli eroi superstiti di Berlino e sugli estri di Balotelli e Cassano. Quattro anni di esperimenti non avevano prodotto una nuova generazione di fenomeni, tutt’altro.

Nel giugno 2013 l’Italia era stata invitata in qualità di vicecampione europeo alla Confederation’s Cup, il torneo premondiale che si teneva nel paese organizzatore della Coppa del Mondo tra le prime di ogni competizione continentale (la Spagna partecipava come campione del mondo in carica). Il risultato era stato buono, ma con il senno di poi ingannevole. Pareggio ed eliminazione ai rigori con la Spagna in semifinale, vittoria sempre ai rigori con l’Uruguay nella finalina del terzo posto. Il gap con le Furie Rosse e con una selezione come la celeste tradizionalmente ostica e che schierava il gioiello Cavani sembrava colmato. Il problema – lo si sarebbe visto un anno dopo – era che a quel torneo le squadre più forti non c’erano.

Contestazione al pallone nella Terra del Pallone

Contestazione al pallone nella Terra del Pallone

La Confederation’s Cup si era conclusa con la vittoria per 3-0 della Seleçao sulla Spagna, a cui la tifoseria locale aveva riservato tra l’altro un pessimo trattamento. I fischi assordanti della Torcida verso quella che sembrava l’avversaria più pericolosa del Brasile lungo la strada per la conquista del sesto Mundial la dicevano lunga sull’aria che tirava nella terra che si preparava a vivere un conto alla rovescia lungo un anno. Ma proprio all’avvio di questo countdown si era registrata la prima incredibile sorpresa.

Il Brasile aveva fama di paese che viveva solo di pallone, per il pallone. E allora come si spiegava la comparsa improvvisa di folle autoctone manifestanti contro il mondiale brasiliano? Di gente che non aveva paura di lanciarsi in gran numero contro i manganelli della polizia per far sapere al mondo che era contraria allo sperpero di denaro (14 miliardi di dollari stimati alla fine dei lavori) per un torneo di calcio, quando il paese si dibatteva più che mai nella contraddizione tra la grande ricchezza di pochi (che ne faceva uno dei paesi maggiormente emergenti, al quinto posto per produzione industriale e al sesto per prodotto interno lordo) e l’altrettanto grande miseria di molti?

Dentro lo stadio Shakira, fuori dello stadio manganellate

Dentro lo stadio Shakira, fuori dello stadio manganellate

La stampa mondiale in gran parte aveva scelto di non spiegare proprio niente, limitandosi ad omaggiare la F.I.F.A. e le stelle del pallone che si apprestavano a dare spettacolo dentro stadi che a poche ore dal fischio d’inizio della gara inaugurale non erano neanche finiti. Mentre una Shakira invecchiata di quattro anni tornava a danzare sulle note di una nuova hit (bruttina, come tutta la cerimonia del resto) composta per l’occasione, affiancata da una ispessita Jennifer Lopez, fuori del Maracanà nelle favelas di Rio ancora polizia e dimostranti se le davano di santa ragione. Ma la stampa aveva occhi e microfoni solo per le forme delle procaci cantanti sul palco, e per il sinistro Joseph Blatter e l’obeso Michel Platini in tribuna in attesa di Brasile e Croazia che avrebbero aperto la ventesima Coppa del Mondo.

Al mondiale che prese il via il 12 giugno, l’Italia era stata sorteggiata in un girone di ferro. Uruguay, Inghilterra e Costa Rica erano avversarie da prendere con le molle e da augurarsi semmai di trovare più avanti. Le 32 partecipanti erano nell’ordine: per l’UEFA Italia, Olanda, Belgio, Svizzera, Germania, Russia, Bosnia-Erzegovina, Inghilterra, Spagna, Grecia, Croazia, Portogallo, Francia; per il CONMEBOL Brasile, Argentina, Uruguay, Colombia, Cile, Ecuador; per la CONCACAF Stati Uniti, Messico, Honduras, Costa Rica; per l’AFC Giappone, Corea del Sud, Australia, Iran; per la CAF Nigeria, Ghana, Algeria, Camerun, Costa d’Avorio.

Shakira canta "La La La", inno dei Mondiali

Shakira canta “La La La”, inno dei Mondiali

Le sorprese cominciarono subito. La Croazia mise subito a nudo i difetti di un Brasile allestito per vincere obbligatoriamente ma con troppi giocatori non all’altezza. Neymar, Thiago Silva, Julio Cesar e poco altro, una banda di comprimari sopravvalutati andarono sotto contro i croati e ci volle tutta l’improntitudine dell’arbitro giapponese Nishimura per trasformare in rigore un fallo fuori area e dare alla Seleçao i primi immeritati e determinanti punti. Negli altri gironi, la sorpresa più grossa la provocò – a rovescio – la Spagna, che andata dapprima in vantaggio contro l’Olanda nella prima partita riedizione della finale di quattro anni prima si fece sorprendere da Van Persie e finì per prenderne addirittura cinque. La manita, come dicono gli spagnoli, fu seguita da una sconfitta contro il coriaceo Cile. Clamorosamente, i campioni in carica tornavano subito a casa.

Meno clamorosamente, i primi a seguirli furono proprio gli Azzurri. Le cose avevano girato bene alla prima uscita contro l’Inghiterra. Marchisio, Sturridge e Balotelli avevano dato vita ad un 2-1 che aveva complicato la vita agli inglesi e illuso gli italiani. Contro il Costarica Prandelli aveva schierato una squadra sbagliata e senza spina dorsale, dimostrando di non avere portato gli uomini giusti, nemmeno per quel poco che passava il convento del calcio italiano. Sconfitta per 1-0, bissata nello spareggio successivo contro l’Uruguay. Tiri in porta in totale uno solo, inguardabile, ad opera di un Balotelli da reimpatrio con il foglio di via. Con la celeste era finita con il gol di Godin segnato a 10 minuti dalla fine e con il morso di Suarez a Chiellini. Cornuti e mazziati. Mesto ritorno, con il rapper Balotelli a fare il consueto buffone e il fuggiasco Prandelli a fare la vittima incompresa. Che pochi giorni dopo comunque era già sotto contratto con il Galatasaray.

Anche la Germania aveva sfiorato la sorpresa in negativo, andando sotto con il Ghana. Ma proprio in quel momento di difficoltà il suo Mondiale aveva avuto la svolta decisiva. L’ingresso di Klose le aveva valso un prezioso pareggio, e al centravanti tedesco della Lazio aveva fruttato il record di segnature mondiali in coabitazione con l’ex fenomeno Ronaldo. E non era finita qui.

Klose capocannoniere dei mondiali (16 reti in 4 edizioni diverse)

Klose capocannoniere dei mondiali (16 reti in 4 edizioni diverse)

Negli ottavi, la Germania aveva sputato ancora sangue contro l’Algeria prima di batterla ai supplementari. Altrettanto aveva fatto l’Argentina contro la legione straniera Svizzera. Il suo miglior giocatore, non il sopravvalutato Messi ma quell’Angel Di Maria che aveva già fatto la fortuna del Real Madrid le aveva cavato le castagne dal fuoco un minuto prima dei calci di rigore. Nelle altre partite, facile successo della sorprendente Colombia con l’Uruguay privo del cannibale Suarez (squalificato) e con Cavani a mezzo servizio, rimonta olandese nei due minuti finali contro il Messico, vittorie faticose del Belgio sugli Stati Uniti e della Francia sulla Nigeria. Successi infine ai calci di rigore per il Costarica contro la Grecia e soprattutto del Brasile contro il Cile, dopo che Pinilla aveva centrato una traversa clamorosa al 119’. In un clima da psicodramma collettivo Neymar aveva calciato un pesantissimo quinto rigore trasformandolo e Julio Cesar aveva parato il tiro successivo dei cileni.

La ginocchiata micidiale di Zuniga a Neymar

La ginocchiata micidiale di Zuniga a Neymar

Dopo il Cile, i padroni di casa affrontavano nei quarti la Colombia. Nei primi minuti aggredirono gli avversari assomigliando a tratti al Brasile che tutti credevano di trovare in quel Mondiale, all’altezza del suo passato. Ma era durata poco, la Colombia aveva inesorabilmente scoperto il bluff verdeoro cominciando a giocare ed anche a picchiare. Aveva finito per perdere 2-1, ma Zuniga aveva fatto fuori Neymar con una spaventosa ginocchiata nella colonna vertebrale. Thiago Silvia invece si era fatto fuori da solo. Il Brasile aveva perso in un colpo solo gli unici suoi giocatori di livello mondiale. Negli altri quarti, la Germania aveva costretto all’impotenza la Francia capitalizzando l’unico gol di Hummels. L’Argentina aveva fatto altrettanto con il Belgio, Higuain aveva segnato un gran gol, poi però Di Maria si era fatto male. Mondiale finito, ed era una tegola per i biancocelesti. Infine l’Olanda aveva sprecato come suo solito, riuscendo ad avere la meglio sul Costarica solo ai calci di rigore.

Semifinali. A Belo Horizonte il Brasile aveva messo a confronto il suo sogno con la realtà della Germania. Per uscirne con le ossa rotte, frantumate. I tedeschi giocavano a memoria, sublimando il ciclo di Loew che ormai durava da otto anni. I brasiliani da troppo tempo si erano illusi di essere all’altezza dei propri sogni, del proprio passato, della voglia di vendicare l’onta del 1950. Dopo un quarto d’ora stavano già sotto 2-0, Klose si era già preso il record di Ronaldo. Dopo 45 minuti stavano 5-0, lacrime brasiliane ed euforia tedesca. Alla fine sarebbe stato 7-1, il Maracanazo era stato cancellato, sì, ma da una disfatta ben più grande, che probabilmente peserà sul futuro sportivo e sociale del paese ospitante per diverso tempo a venire.

David Luiz, uno dei peggiori di un pessimo Brasile

David Luiz, uno dei peggiori di un pessimo Brasile

Nell’altra semifinale, la paura aveva fatto 90. Argentina e Olanda non avevano tirato in porta una sola volta, preoccupate solo di non prenderle. Alla fine, ai calci di rigore la sorte si era ripresa con gli interessi ciò che aveva elargito all’Olanda nel turno precedente. Argentina in finale, a cullare il sogno di alzare la Coppa proprio nel tempio del calcio brasiliano. Maradona è meglio di Pelé, cantavano i suoi tifosi per le strade di Rio, dove erano giunti in 100.000 nelle ore precedenti la finale. Più che Rio sembrava in effetti Buenos Aires. Messi si sentiva già il nuovo Maradona. Peccato che nessuno aveva fatto i conti con una Germania che, stanca di arrivare seconda o terza, di giocare bene e non vincere nulla, stavolta non voleva mancare questo incredibile (ed insperato soltanto alla vigilia) appuntamento con la storia.

Leo Messi, il pallone d'oro più immeritato della storia dei Mondiali

Leo Messi, il pallone d’oro più immeritato della storia dei Mondiali

Poco dopo che il Brasile aveva lasciato anche la finalina del terzo posto nelle mani degli orange prendendo altri tre gol (per un totale di 10 in due partite, record assoluto), Germania e Argentina scesero in campo al Maracanà. Cinque titoli mondiali già vinti si disputavano il sesto.  I tedeschi, campioni nel ’54, ’74 e ’90, avevano avuto il controllo del gioco per lunghi tratti senza riuscire a perforare l’arcigna difesa biancoceleste guidata dal fuoriclasse Mascherano. Gli argentini, campioni nel ’78 e nel ’86, avevano avuto però le migliori occasioni, malgrado un Messi deludente come pochi altri nella storia dei Mondiali e l’assenza pesantissima di Di Maria.

Quando già l’arbitro italiano Rizzoli (non impeccabile, ma che aveva distribuito equamente i suoi errori) si apprestava a far tirare i calci di rigore per la terza volta nella storia delle finali mondiali, il golden boy tedesco Mario Goetze aveva trovato la prodezza che valeva per la Germania la quarta stella della sua storia, ponendola al pari dell’Italia al secondo posto nella speciale classifica dei plurivincitori mondiali, una lunghezza dietro al Brasile. E l’orgoglio di essere la prima europea – proprio lì, in casa dello stesso Brasile che si era fregiato da solo di quel record a parti invertite fino ad un attimo prima – a vincere nel continente sudamericano.

Sotto gli occhi attoniti dei presuntuosi argentini e sotto quelli avviliti, annichiliti dei padroni di casa, Angela Merkel poteva finalmente abbracciare ad uno ad uno i nuovi eroi della sua nazione. Una delle più belle squadre tedesche di sempre, senza alcun dubbio. Philip Lahm alzava la Coppa del Mondo  nel tempio del calcio, nella Terra degli Dei del Pallone.

Auf wiedersen welt fussball. Fra quattro anni, a Mosca.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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