Pelé abbraccia Amarildo dopo la vittoria finale
Didì, Vavà, Pelé, siete lo zucchero dentro il caffé. Così recitava una canzoncina popolare tra la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60. Il Brasile aveva inseguito a lungo il titolo mondiale e adesso se lo godeva, con l’ammirazione del mondo intero per la sua squadra di giocolieri di cui la Perla Nera del Santos, Pelé, era la punta di diamante.
Nel 1962 il titolo doveva essere rimesso in palio in Sudamerica, e il Brasile puntava a confermarlo. La squadra era per otto undicesimi la stessa che per la prima e unica volta aveva trionfato al di fuori del proprio continente quattro anni prima. Il suo peso politico all’interno del direttivo della FIFA era oltretutto in crescita. La regola dell’alternanza, più volte disattesa, stavolta imponeva la scelta del subcontinente latino americano. La candidatura più forte era quella dell’Argentina, che chiedeva il suo momento di gloria fin dagli anni 30.
La scelta fu fatta nel 1956, quando ancora si doveva giocare il mondiale svedese e il Brasile era a zero titoli. I carioca non potevano accettare la designazione degli odiati vicini, i loro più acerrimi rivali assieme agli uruguaiani che già avevano dato loro l’enorme dispiacere a domicilio nel 1950. Così, grazie all’appoggio determinante del Brasile, la scelta cadde su quello che allora sembrava il più improbabile dei paesi sudamericani, il Cile.
Il paese che si snoda a sinistra della cordigliera delle Ande, una lunghissima lingua di terra dal Peru fino alla Terra del Fuoco, era alla fine degli anni 50 una specie di Cenerentola sudamericana, malgrado le sue notevoli risorse naturali, soprattutto minerarie, che ne avevano fatto fin dall’epoca coloniale una meta prediletta di commercianti (e avventurieri) prima britannici e poi nordamericani. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi il Cile era una specie di protettorato statunitense, per quanto riottoso.
All’epoca in cui la FIFA, su pressione brasiliana, lo scelse quale sede della Settima Edizione della Coppa del Mondo di Calcio, nulla lasciava presagire la tragedia che avrebbe travolto il paese una quindicina di anni dopo con il golpe militare di Pinochet che affogò nel sangue il governo di Salvador Allende e di Unidad Popular. Ma molti segnali premonitori già c’erano, visibili a chi li voleva cogliere. E soprattutto c’era uno stato di arretratezza economica che rendeva la scelta della FIFA ancora più sorprendente. Un mondiale era già allora un affare di tanti soldi. Ce l’avrebbe fatta il piccolo, modesto per quanto orgoglioso Cile?
Tra i più pronti a cogliere queste contraddizioni e a dipingere nei loro reportage la realtà del paese andino in raffronto stridente con l’immane impegno che si era assunto per volontà del governo mondiale del Calcio, ci furono i giornalisti italiani. I quali non usarono mezzi termini, parlando di paese sottosviluppato e regredito e – poiché il mondo già allora non aveva più confini e la carta stampata aveva diffusione globale – urtando decisamente l’orgoglio nazionale cileno, al pari di quello di ogni altro paese sudamericano decisamente smisurato e particolarmente suscettibile.
Nel 1960 il più grande terremoto del ventesimo secolo devastò il versante occidentale della cordigliera delle Ande. Ciò sembrò rendere apparentemente ancora più problematica, se non inverosimile, l’organizzazione del mundial da parte cilena, e sostanziare ancora di più le perplessità della stampa internazionale, tra cui continuava a spiccare quella italiana per criticità. In questo caso, l’orgoglio cileno fece la sua parte positiva, dando una spinta in più per risollevarsi in tempo utile per presentarsi all’appuntamento con il mondo del Football all’altezza della situazione. Quanto alle critiche italiane, nessuno le dimenticò e tutti se le legarono al dito, pronti a presentare il conto appena se ne fosse offerta l’occasione.
Alla cerimonia di inaugurazione che si tenne a Santiago del Cile il 30 maggio 1962, oltre al Brasile campione in carica ed ai padroni di casa presero parte altre dieci nazionali europee, Italia, Inghilterra, Germania Ovest, Jugoslavia, URSS, Bulgaria, Cecoslovacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria, e altre quattro americane, Messico, Uruguay, Argentina e Colombia. Gli azzurri tornavano ai Mondiali dopo la disfatta di Belfast del 1958, essendosi qualificati a spese del non trascendentale Israele, battuto nel doppio confronto per un totale di 10 reti a 2.
Ma era un periodo strano per il calcio italiano, quasi una crisi di identità epocale. Dopo la guerra e dopo la tragedia di Superga che aveva spazzato via il Grande Torino, la Nazionale azzurra non aveva più trovato una sua dimensione, malgrado il nostro campionato abbondasse di campioni e di squadre forti anche a livello internazionale. Finita l’epoca degli uruguaiani, la maglia azzurra continuava ad essere indossata da sudamericani naturalizzati a cui spuntava fuori prima o poi un nonno partito dal Bel Paese al tempo delle grandi migrazioni.
Al momento di imbarcarsi per il Cile, due dei tre famosi angeli dalla faccia sporca argentini, Omar Sivori e Humberto Maschio, avevano accettato il passaporto italiano (il terzo, Antonio Valentin Angelillo, a tutt’oggi il capocannoniere recordman stagionale del nostro campionato con 35 reti, era rimasto fedele alla patria biancoceleste). A loro si aggiungeva il talento emergente del golden boy Gianni Rivera, e tutta una serie di campioni che di lì a poco avrebbero fatto grandi Milan e Inter.
Con una squadra così era difficile fare male. Eppure Giovanni Ferrari (ex campione del mondo 34 e 38 e selezionatore azzurro in collaborazione con Paolo Mazza, allenatore della rivelazione del momento, la Spal) ci riuscì. Far coabitare tanti talenti non è facile, e di simili naufragi è piena la storia del calcio. Uno di questi, clamoroso, fu senza dubbio la spedizione azzurra in Cile nel 1962.
Un altro aspetto negativo di quella partecipazione italiana al mundial cileno fu la pressoché totale assenza di peso politico della nostra Federazione. L’Italia fu sorteggiata nel girone che comprendeva la squadra di casa, l’ostica Svizzera e la Germania Ovest, quello che oggi si chiamerebbe un girone di ferro. Tra italiani e tedeschi per una volta finì in parità, 0-0. La formula era quella già sperimentata in Svezia, passavano due squadre su quattro e poi eliminazione diretta. La seconda partita, contro il Cile che aveva liquidato la Svizzera, sarebbe stata determinante.
Probabilmente il Cile avrebbe avuto comunque una spinta in più dal fatto di giocare in casa (con relativa benevolenza della FIFA, preoccupata degli incassi). Ma il 2 giugno 1962 sugli spalti dell’Estadio Nacional di Santiago del Cile non c’era uno dei suoi tifosi che non si ricordasse gli articoli della stampa italiana. La folla chiedeva la qualificazione della squadra di casa, ed insieme anche il sangue. E lo ebbe.
La Federazione italiana ci mise del suo, ricusando l’arbitro iberico Ortiz de Mendibil perché di lingua spagnola, come i padroni di casa. Errore marchiano, perché c’era un solo paese che i cileni odiavano in quel momento più della ex potenza coloniale, ed era l’Italia. Ortiz non aveva motivo per sfavorire gli italiani, non più di quanto ne aveva Ken Aston, l’arbitro inglese che aveva già diretto il 3-1 del Cile alla Svizzera e che fu designato anche per la successiva partita con l’Italia.
E’ passata alla storia come la battaglia di Santiago. Gli azzurri si presentarono in campo con dei mazzi di fiori per fare pace e ricevettero in cambio bordate di fischi. Aston commise tante e tali sviste da essere impossibile che fossero tutte casuali o comunque non predeterminate. Ferrini e David furono espulsi per falli di reazione ad entrate assassine dei cileni. Maschio ebbe il naso fratturato da un pugno di Sanchez, ignorato da Aston. Praticamente in otto contro undici (più settantamila spettatori e l’arbitro), gli italiani ressero fino al 74’, poi dovettero capitolare due volte.
Il Cile perse la terza partita con la Germania, ma passò per un punto in più sull’Italia a cui non servì la vendetta sulla Svizzera per 3-0. Dopo il 1950, il 1954 ed il 1958, il mondiale azzurro si concludeva una volta di più in maniera anticipata e ingloriosa. Passare anche soltanto un turno era diventato proibitivo, e a poco servivano le recriminazioni verso un arbitraggio che è rimasto sinonimo di vergognosa malafede almeno fino al 2002, quando l’allievo Byron Moreno superò il maestro Ken Aston.
Con gli azzurri a casa, non restava che vedere se qualcuna delle superstiti sarebbe stata in grado di evitare il bis del Brasile. I verdeoro avevano perso la Perla Nera alla seconda partita. Pelé si era infortunato tentando un tiro da fuori con la Cecoslovacchia, la partita finì 0-0 ed il mondiale carioca continuò con un altro campione al posto del campionissimo. Amarildo Tavares de Silveira, detto Amarildo, non lo avrebbe fatto rimpiangere, risultando decisivo al pari del mitico Garrincha per la corsa della sua squadra verso il secondo titolo mondiale. Dopo l’Inghilterra, i campioni in carica eliminarono in semifinale il sorprendente Cile, che aveva ripetuto con l’URSS l’exploit contro l’Italia. Dall’altra parte la Cecoslovacchia vinse contro la Jugoslavia che a sua volta aveva mandato a casa i tedeschi dell’ovest. La finale fu una ripetizione della partita delle eliminatorie, tranne che per il risultato. Masopust illuse i cechi al 14’, poi arrivò la valanga verdeoro, con Amarildo, Zito e Vavà.
Nel complesso, con buona pace l’orgoglio cileno, fu forse il mondiale più incolore della storia del calcio, e anche quello più falsato dagli arbitraggi e dal gioco duro impunito. Ma sulla seconda vittoria dei brasiliani almeno ci fu poco da discutere. Quel Brasile, pur privo di Pelé, era una spanna sopra tutte, e raggiunse meritatamente Italia ed Uruguay in testa alla classifica dei vincitori della Coppa Rimet. Il giorno in cui essa si sarebbe fermata per sempre in uno dei paesi membri della FIFA era sempre più vicino.
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