«Noi avevamo tutto, stabilità politica, continuità calcistica, stadi, soldi, organizzazione. Qualcuno mi spieghi: cos’ha la Francia più di noi?» Per la seconda volta bocciato dall’esecutivo della F.I.F.A. in sede di assegnazione di un’edizione della Coppa del Mondo di calcio, il Marocco – che aveva già provato a contendere agli Stati Uniti quella del 1994 – rivolgeva a se stesso e all’opinione pubblica internazionale questa domanda retorica, venata di profonda amarezza.
La risposta era semplice: Michel Platini. La F.I.F.A. di Havelange e Blatter era pronta a stravolgere il calcio nelle sue regole secolari, ma non ancora e non fino al punto di portarlo in Africa, non a livello di campionato del mondo almeno. Non se l’antagonista si chiamava Stati Uniti o Francia. La Francia aveva avuto da sempre ben altro peso nel governo del calcio, fin dai tempi di Rimet e Delaunay. E si apprestava a riaverlo, più di quanto poteva in ogni caso mai sperare di avere una delle sue ex colonie. Nel 1992, anno in cui fu assegnata a Parigi la sedicesima edizione della F.I.F.A. World Cup, o – per l’occasione – Coupe du Monde, l’ex calciatore più celebre dell’intera storia di Francia aveva appena deciso una svolta esistenziale. Addio alla Nazionale dei bleus, di cui era allenatore dal 1988 e che aveva guidato nella transizione tra la sua generazione e quella di colui che era accreditato come il suo più degno successore, Zinedine Zidane detto Zizou.
Platini non era destinato a rimanere peraltro a lungo disoccupato, visto che negli stessi giorni delle sue dimissioni Havelange & C. votavano l’assegnazione del Mondiale al suo paese. Il Marocco fu sconfitto a tavolino 12 – 7, e Roi Michel si ritrovò a presiedere il comitato organizzatore di France 98. Da giocatore aveva potuto soltanto sfiorare per due volte la Coppa dorata, sconfitto nell’82 e nell’86 sempre dalla Germania Ovest. Aveva comunque portato il calcio francese a livelli mai raggiunti, se non episodicamente nel 1930 e nel 1958, grazie alla vittoria nell’Europeo casalingo del 1984.
Con lui e attorno a lui il calcio transalpino era cresciuto in quantità e qualità, e adesso voleva una seconda edizione del mondiale, dopo quella del 1938 in cui aveva dovuto lasciare via libera alla più forte Italia. Stavolta sarebbe andata diversamente, erano convinti i galletti. Nel 1996 a Londra la Francia si era classificata quarta agli Europei vinti dalla Germania riunificata, ma a detta di tutti avrebbe potuto fare di più, essendo stata superata solo dalla fortissima Repubblica Ceca di Pavel Nedved. Era il momento giusto per ospitare un mondiale. E per vincerlo.
Con l’ascesa della Francia, le gerarchie del calcio mondiale in generale stavano cambiando. La Germania sembrava di nuovo rinvigorita, grazie all’apporto dei giocatori dell’ex Est. Come l’Argentina nel ’78 con Maradona, il Brasile aveva lasciato in panchina nel 1994 il suo giovanissimo talento, Ronaldo Luis Nazàrio de Lima, e gli era andata bene lo stesso, ma quattro anni dopo Ronaldo era ormai il Fenomeno e aveva preso in mano la nazionale verdeoro. L’Argentina si era ricompattata dietro Batistuta. In rialzo anche le quotazioni della Spagna, le Furie Rosse erano state capaci di eliminare la Repubblica Ceca nelle qualificazioni, e la Croazia di Suker, prima squadra ad uscir fuori dal tracollo della vecchia Jugoslavia e a raccogliere risultati. Alle qualificazioni di Euro 96 era andata vicina ad eliminare l’Italia, battendola in casa propria.
Già, l’Italia. Anni turbolenti anche quelli trascorsi da U.S.A. 94 a France 98. La banda di Sacchi era ritornata delusa dalla lotteria dei calci di rigore di Pasadena, ma con la consapevolezza di essere in cima al ranking mondiale al pari del Brasile campione del mondo. Il talento di Roberto Baggio però cominciava ad essere messo in discussione anche nel suo club di appartenenza, la Juventus, in cui si stava affermando un potenziale concorrente, Alessandro Del Piero che aveva uno sponsor d’eccezione addirittura nell’Avvocato Agnelli, a cui Baggio non stava proprio simpatico fin dai tempi del suo trasferimento contrastato dalla Fiorentina. Con la crescita di Gianfranco Zola, inoltre, nemmeno il posto in azzurro era più sicuro per il Codino.
Chi era sempre più messo in discussione, dai suoi stessi giocatori, era Arrigo Sacchi, i cui metodi e le cui filosofie di gioco andavano ormai loro stretti. La giovane ed emergente Croazia mise allo scoperto le magagne di un’Italia che finì per andare agli Europei per il rotto della cuffia, ma che era destinata a farvi una veloce comparsata. Vittoria con la Russia, sconfitta con la Repubblica Ceca grazie anche ad un assurdo turnover, partita decisiva con la Germania (che avrebbe poi vinto il titolo). I tedeschi erano stati dominati ma non battuti, Zola aveva addirittura sprecato un rigore, ed Euro 96 era continuato senza di noi. A quel punto la testa di Sacchi era in bilico, e solo la testardaggine del tecnico di Fusignano rimandò l’inevitabile.
A Natale 1996 la Federcalcio e l’ex tecnico prodigio erano ai ferri corti. Come nel 1991, il deus ex machina fu il Milan di Berlusconi, che era insoddisfatto di un Washington Tabarez gran signore ma poco vincente e che si risolse a riprendersi il mister dei tempi felici di Van Basten, Gullit e Rjikard. Sacchi tornò a casa, liberando la Nazionale da una presenza che ormai tutti definivano scomoda. Al suo posto fu promosso l’ex vice di Enzo Bearzot a Spagna 82, Cesare Maldini.
Il vecchio guerriero triestino veniva da lontano, anche come filosofia calcistica, diametralmente all’opposto di quella di Sacchi. Da una tardiva applicazione del calcio totale all’olandese la nazionale azzurra si ritrovò sbalzata al calcio del Padova di Rocco anni 50. Palla lunga e pedalare, e sperare che là davanti Del Piero, Zola, Christian Bobo Vieri (il figlio di Roberto detto Bob, emigrato da Prato in Australia negli anni 60) o qualcun altro la buttassero dentro. Dietro, imperniata sul talento del figlio Paolo una difesa o palla o gamba, e non necessariamente palla.
All’inizio fu un successo. Nel gennaio 1997 l’Italia andò a giocare la partita chiave del girone di qualificazione a France 98 nientemeno che a Wembley, e ripeté lo storico risultato del 1973, ma stavolta in gara ufficiale. Zola bissò il gol-partita di Capello e l’Italia mise alle corde l’Inghilterra come all’epoca dei mondiali di Argentina. Euforia generale del calcio italiano e Sacchi dimenticato come se non fosse mai esistito dopo appena un paio di mesi. Ma non era destinata a durare.
Maldini era troppo difensivista, rinunciava a giocare pur avendo gli uomini giusti per farlo. Si accontentava di pareggiare quando giocare per vincere era un rischio. Quando l’Inghilterra ci restituì la visita a Roma, ci aveva superato in classifica e le bastò un pareggio per qualificarsi, condannando noi ad un pericolosissimo spareggio con la Russia. Nel doppio confronto fu decisivo Bobo Vieri, e così il 10 giugno allo Stade de France alla cerimonia inaugurale di France 98 c’eravamo anche noi. Lo stadio era stato costruito appositamente per il Mondiale nel quartiere parigino di Saint Denis e aveva sostituito i vecchii, gloriosi Parco dei Principi e lo Stade de Colombes dove gli azzurri avevano trionfato sessant’anni prima. I francesi volevano inaugurare il nuovo impianto con una vittoria mondiale, a tutti i costi.
Il nuovo corso di Blatter aveva prodotto altre innovazioni, per la prima volta partecipavano al torneo 32 squadre, 15 dell’Europa (Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Jugoslavia (la federazione superstite composta da Serbia e Montenegro), Norvegia, Olanda, Romania, Scozia e Spagna), 3 del Nordamerica (Giamaica, Messico e Stati Uniti), 5 del Sudamerica (Argentina, Brasile, Cile, Colombia e Paraguay), 5 dell’Africa (Camerun, Marocco, Nigeria, Sudafrica e Tunisia), 4 dell’Asia (Arabia Saudita, Corea del Sud, Giappone e Iran, che tornava ai Mondiali dopo 20 anni e per la prima volta dopo la rivoluzione khomeinista). Altra innovazione, l’introduzione del golden gol ai supplementari, chi segnava per primo vinceva il match.
L’Italia venne sorteggiata in un girone comprendente Cile, Austria e Camerun, tutte vecchie conoscenze di passate edizioni. Nella prima partita i cileni ci stavano mettendo sotto per 2-1, a salvare la patria fu ripescato quel Roberto Baggio che aveva dovuto lasciare il posto a Del Piero, il quale tuttavia in Nazionale stentava ad ingranare. Quattro anni dopo Codino segnò il rigore che aveva sbagliato a Pasadena. Il Camerun, secondo avversario, era lontano parente di quello di N’kono e Milla e ne prese tre, con Maldini che inaugurò la staffetta tra Baggio e Del Piero. Alla terza partita, vittoria sull’Austria grazie alla premiata ditta Baggio – Inzaghi, con Roberto che segnava così il suo nono gol mondiale, in 3 edizioni diverse. Italia agli ottavi tutto sommato senza troppi patemi.
Negli altri gironi, qualche problema per il Brasile battuto dalla Norvegia, con un Ronaldo ancora in ombra ed il vecchio Bebeto ancora in auge. Qualificati entrambi a braccetto, così come Francia e Danimarca, Olanda e Messico, Germania e Jugoslavia, Romania e Inghilterra, Argentina e Croazia. La sorpresa venne da Paraguay e Nigeria, che eliminarono Spagna e Bulgaria. Da segnalare, i padroni di casa giocavano senza Zidane dalla seconda partita per un fallo di reazione che gli era costato due giornate di squalifica. Il francese di origini berbere algerine non avrebbe mancato anche in seguito di rendersi autore di simili intemperanze, in una circostanza decisiva esattamente otto anni dopo.
Agli ottavi di finale, larghi successi di Brasile (sul Cile) e Danimarca (sulla Nigeria). L’Argentina concesse all’Inghilterra la rivincita del 1986, stavolta non ci furono mani di Dio, ma quella inglese era ancora una delle due Nazionali destinate a subire la maledizione dei calci di rigore. L’altra si sarebbe palesata al turno successivo. Croazia su Romania, Germania su Messico, Olanda su Jugoslavia, Francia su Paraguay (ai supplementari e con molta fatica), tutte di misura. Anche l’Italia passò il turno di misura contro la Norvegia, stavolta non fu una partita drammatica come nel 1994 ma finché non ci aveva pensato Bobo Vieri con un contropiede devastante dei suoi era stata comunque una partita ostica.
Ai quarti di finale, come nel 1938 ci toccava la Francia, nelle cui file rientrava Zidane. Per Maldini, la preparazione della partita consistette esclusivamente nella marcatura del fuoriclasse transalpino, lasciando fuori ovviamente il nostro fuoriclasse Roberto Baggio a vantaggio di un Del Piero che non riusciva a decollare. Malgrado la gabbia anti-Zizou, la Francia ebbe diverse occasioni sventate da Pagliuca, ma anche l’Italia ebbe le sue due. Con Christian Vieri, parato da Barthez, e con Roberto Baggio che a pochi minuti dalla fine dei supplementari mancò di poco il golden gol con uno splendido tiro al volo. Ai rigori, il destino dell’Italia era scritto: non c’è due senza tre. I francesi sbagliarono il primo, ma gli azzurri ne sbagliarono due, con Albertini e Di Biagio. Per la terza volta consecutiva (la seconda senza aver perso nemmeno una partita), l’Italia usciva dal mondiale a causa dei tiri dal dischetto, per i quali ormai era lecito parlare di idiosincrasia. Senza nulla togliere alle giuste critiche al calcio vetusto di Maldini padre, che non sarebbe sopravvissuto (sportivamente) a quella spedizione Oltralpe.
In semifinale, la Francia trovava la Croazia di Davor Suker, capocannoniere del mondiale. I croati avevano eliminato i tedeschi con un sonoro 3-0, mentre gli olandesi avevano fatto piangere un’Argentina troppo Batistuta-dipendente e il Brasile aveva posto fine all’epopea della Danimarca, pur con Ronaldo ancora in tono minore. Il Fenomeno si sbloccò in semifinale contro l’Olanda, anche se per decidere la prima finalista furono necessari i rigori. Grazie a due errori olandesi, il Brasile tornava in finale quattro anni dopo Pasadena, alla caccia del quinto titolo.
Nell’altra semifinale, i bleus ebbero momenti assai difficili contro una Croazia priva di qualsiasi timore reverenziale, andando sotto grazie ad un gol del solito Suker. Fu Lilian Thuram a segnare la doppietta che ridiede fiato ai Coqs e ad un intero paese che ormai sentiva a portata di mano la storica vittoria. Malgrado l’espulsione di Blanc, i francesi ressero gli ultimi minuti. E si disposero quindi ad affrontare il Brasile.
Il 12 luglio 1998 la Francia intera si preparava a vivere il giorno del destino, mentre nell’albergo che ospitava il Brasile scoppiava il dramma. Ronaldo il Fenomeno doveva essere trasportato d’urgenza in ospedale, in preda a quella che sembrava una crisi epilettica. Dal ritiro carioca trapelavano scarse notizie, la verità di cosa successe (se di verità si tratta) emerse solo molti anni dopo. L’asso brasiliano aveva avuto un attacco cardiaco dovuto a cause non meglio precisate, e pare addirittura che i farmaci somministratigli contro la supposta epilessia andassero molto vicini ad ucciderlo.
I brasiliani scesero in campo con questo magone, quasi un segno infausto della sorte avversa. I francesi invece giocavano sulle ali della gloria. Quel giorno tutto quello che Zidane toccava diventava oro. Due gol di testa identici su calcio d’angolo, a riprova di un Brasile che faticava a stare in campo. Poi la ormai consueta espulsione, stavolta toccò a Desailly. Ma controllare gli spenti avversari verdeoro non fu un problema, e nel finale Petit arrotondò a 3-0.
La Francia scriveva il suo nome nell’Albo d’Oro dei vincitori della Coppa del Mondo, allungandone la lista come settimo paese. Il giorno dopo, il ricevimento della squadra all’Eliseo e la sfilata sugli Champs Elysées erano d’obbligo. Così come d’obbligo erano le polemiche roventi che infuriavano nel frattempo in Italia. Zizou sarebbe tornato a Torino alla Juventus da campione del mondo, in un paese che avrebbe rivisto a lungo con gli occhi della mente quel tiro al volo di Roberto Baggio che finiva fuori di un soffio. La storia era arrivata allo stesso punto di snodo del 1938, ma questa volta aveva avuto un esito ben diverso.
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