The time of our lives. Il momento più importante delle nostre vite. Era l’inno ufficiale dei Mondiali di calcio 2006, cantato dalla pop singer americana Toni Braxton e dal gruppo anglo-spagnolo Il Divo. Per noi italiani era un titolo profetico.
Dopo Spagna 1982 avevamo vissuto altre notti magiche, senza però godercele mai fino in fondo. Per tre volte i maledetti calci di rigore, alla fine Byron Moreno, un arbitro come quelli di cui avevamo sentito parlare solo dai nostri vecchi, l’ineffabile Ken Aston di Cile 1962 o Istvan Zsolt di Belfast 1958, avevano interrotto i nostri sogni sul più bello, trasformandoli in incubi senza risveglio. Se perfino Italia 90, il mondiale giocato in casa e con la squadra migliore, era rimasto come un qualcosa a cui si preferiva non ripensare, chissà quando mai avremmo potuto attaccare accanto al poster di Tardelli che urla al Bernabeu una immagine più attuale ma altrettanto significativa.
Nel 2006 i Mondiali toccavano alla Germania, che aveva battuto (non senza polemiche, peraltro consuete da quando a capo di tutto c’era Sepp Blatter) la concorrenza di Sudafrica e Brasile (accontentate non a caso con le due edizioni successive del 2010 e 2014). Proprio i tedeschi erano stati i trionfatori di Italia 90, festeggiando sul prato dell’Olimpico di Roma la vittoria che li poneva a parità di titoli conquistati proprio con noi: tre a testa, dietro il Brasile che nel frattempo era salito a cinque.
La Germania per noi rievocava memorie infauste anche per altri motivi. Quella del 2006 era la XVIII^ edizione, e la seconda volta che la Fussball Weltmeisterschaft tornava nel paese di Fritz Walter, di Franz Beckenbauer, di Jurgen Klinsmann. La volta precedente, la X^, i bianchi padroni di casa avevano trionfato contro la mitica Olanda di Cruyff e Neeskens. Allora si giocava a Monaco di Baviera, perché il paese era diviso in Ovest ed Est secondo l’assetto della Guerra Fredda, e Berlino era solo una città occupata dalle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale.
Per l’Italia, quel torneo del 1974 era uno dei peggiori ricordi dell’intera storia calcistica. Al momento di partire per Stoccarda, l’azzurro delle maglie italiane era sfolgorante dopo anni di successi brillanti che ci avevano posti tra i principali favoriti di quell’anno. Con l’andare delle partite, l’azzurro era diventato di tonalità tenebra, per usare la definizione di Giovanni Arpino. Ci eravamo scoperti improvvisamente invecchiati al cospetto del calcio totale, il nuovo verbo, e la Polonia di Szarmack, Lato e Deyna ci aveva mandati a casa già nel girone eliminatorio.
Per quanto proprio contro i tedeschi ci fossimo tolti storicamente alcune delle più grandi soddisfazioni, la Germania da noi era vissuta anche stavolta come una terra inospitale, calcisticamente parlando e non solo. Il mondo – credevamo – era pronto a fare un sol boccone dell’Italia e a risputarne i brandelli in faccia ai nostri emigrati, che aspettavano la disputa del secondo mondiale von Deutscheland 32 anni dopo il primo se possibile con maggiore trepidazione e minori speranze.
Germania e Italia erano agli antipodi, come sensazioni di partenza. I tedeschi venivano dalla finale di Yokohama, dove si erano arresi più al genio esplosivo del fenomeno Ronaldo che al Brasile, forte ma meno brillante che ai tempi d’oro di Pelé. Con quattro anni di più di esperienza, pareva che il quarto titolo difficilmente potesse sfuggire a Ballack & compagni, malgrado agli Europei portoghesi del 2004 fossero stati eliminati al primo turno, fatto più unico che raro.
Per l’Italia, per la quale invece il Mondiale precedente si era chiuso con il disastro e la beffa di Moreno ed una nuova Corea, proprio l’Europeo del 2004 era stato uno spartiacque. L’eliminazione per mano di Danimarca e Svezia, unite a braccetto nel famigerato biscotto, aveva posto termine alla esperienza in azzurro di Giovanni Trapattoni. Anche stavolta l’acqua santa del Trap – ed un Cassano in forma stratosferica – non erano stati sufficienti a salvare la patria calcistica, gravemente menomata dalla trappola tesa da Poulsen a Totti nel primo match. Il fuoriclasse romano c’era cascato in pieno, reagendo ai falli del danese con il famigerato sputo, e aveva lasciato in 10 un’Italia che di lui non poteva fare a meno.
Sulla panchina azzurra era quindi andato a sedersi un allenatore emergente, quel Marcello Lippi che aveva riportato la Juventus a fasti non più vissuti dai tempi proprio del Trap. Lippi era un vincente, aveva riportato la Coppa dei Campioni a Torino 11 anni dopo l’Heysel, aveva cominciato in Nazionale in sordina portandola alla fine a qualificarsi per il Mondiale senza patemi, vincendo anche en passant una amichevole di lusso in Olanda.
Gli azzurri con lui erano cresciuti nella testa e nel gioco partita dopo partita. Ad aprile 2006 a Firenze era scesa proprio la Germania per un test assai probante a due mesi dal Mondiale. I tedeschi ne erano usciti con le ossa rotte, l’Italia aveva fatto un figurone malgrado fosse ancora una volta priva di Totti, rimasto vittima a gennaio di un gravissimo infortunio. Mentre il fantasista giallorosso si rimetteva, era esplosa la stella di Luca Toni, in procinto di vincere la Scarpa d’Oro europea con i suoi 31 gol stagionali segnati con la Fiorentina. Tutto sembrava insomma girare alla perfezione o quasi, autorizzando di nuovo (con un ricorso storico che poteva anche sembrare sinistro) un pronostico favorevole per gli Azzurri in vista dell’imminente mondiale tedesco. All’improvviso però, il disastro.
Il campionato di serie A quell’anno finiva il 14 maggio. L’ultima giornata avrebbe dovuto coincidere con la grande festa della Juventus che aveva conquistato il suo ventinovesimo scudetto dopo una cavalcata trionfale. Quella festa però non c’era stata, al posto della coppa che spetta al vincitore e dello scudetto da cucire sulle maglie ai bianconeri (e insieme a loro anche ad altre squadre) erano stati consegnati i deferimenti alla giustizia sportiva e gli avvisi di garanzia nei confronti di quella ordinaria per le indagini sullo scandalo che sarebbe passato alla storia come Calciopoli.
Il terremoto che sconvolse in brevissimo tempo il calcio italiano aveva un solo precedente di tale portata: il Calcioscommesse che nel 1980 aveva decapitato la Nazionale privandola di Paolo Rossi e altri campioni, accusati di essere in combutta con la Banda Cruciani che aveva truccato alcune partite del massimo campionato. Stavolta era sotto accusa il sistema che faceva capo al potente direttore sportivo della Juventus Luciano Moggi, accusato di essere il governatore di quel sistema, colui che non permetteva si muovesse foglia al di fuori del suo controllo. Insieme a Moggi erano finiti sul banco degli accusati i vertici di altre società. Nessuno dei giocatori era implicato stavolta, ma come già nel 1980 lo scandalo era sembrato il prodromo di un nuovo disastro azzurro.
La spedizione italiana partì tra le contestazioni di tifoserie inferocite per aver scoperto che il giocattolo preferito era marcio, ed in alcuni casi che la propria squadra del cuore rischiava l’osso del collo. Scommettere su una buona prestazione azzurra in quelle condizioni era velleitario. I venditori di elettrodomestici promettevano tranquillamente ai loro clienti di regalare i televisori da loro acquistati nel mese prima del mondiale in caso di vittoria dei ragazzi di Lippi, sapendo di correre in tal senso rischi infinitesimali.
In realtà, nessuno poteva sapere che nella testa degli Azzurri e del loro allenatore stava scattando qualcosa di molto simile a ciò che era scattato a Bearzot e ai suoi ragazzi nel 1982 a Vigo, in Spagna. Solo contro tutto e contro tutti, il gruppo italiano si ricompattò, fece squadra più che mai e quando il 9 giugno finalmente il torneo prese il via e invece di ufficio inchieste si ricominciò a parlare di calcio giocato, si fece trovare pronto a vendere cara la pelle.
Alla XVIII^ Coppa del Mondo parteciparono 32 squadre. L’Europa per la prima volta era scesa a 14 rappresentative, Germania, Ucraina, Polonia, Italia, Inghilterra, Croazia, Olanda, Portogallo, Svezia, Serbia-Montenegro, Francia, Rep. Ceca, Svizzera, Spagna. Il posto in meno dell’Europa era andato all’Oceania, presente con l’Australia. Il Sudamerica aveva quattro squadre, Argentina, Brasile, Ecuador e Paraguay. Il Nordamerica altre quattro, Stati Uniti, Messico, Costarica, Trinidad y Tobago. Quattro squadre anche l’Asia, con Giappone, Iran, Corea del Sud e Arabia Saudita. Cinque infine l’Africa, con Angola, Costa d’Avorio, Togo, Ghana e Tunisia.
Il 9 giugno 2006 nella partita d’apertura per la prima volta non scese in campo il paese detentore del titolo ma quello ospitante. La Germania inaugurò quindi il proprio Mondiale battendo 4-2 il Costa Rica. I padroni di casa passarono il turno eliminatorio insieme al sorprendente Ecuador ed eliminando la Polonia. Qualificate senza problemi Inghilterra e Svezia, Argentina e Olanda (a spese della Serbia- Montenegro), Portogallo e Messico, Brasile ed Australia (a spese della Croazia), Francia (che soffrì enormemente rischiando con il Togo) e Svizzera, Spagna e Ucraina.
L’Italia era nel gruppo E, un girone simile a quello di Italia 90, con Stati Uniti e Rep. Ceca ed il Ghana al posto dell’Austria. Ma da Italia 90 i valori erano cambiati, e di molto. Nella prima partita il Ghana apparve un avversario temibile, ci volle una magia di Pirlo per sbloccare il risultato e un contropiede di Iaquinta per metterlo al sicuro. Nella seconda partita gli U.S.A. mostrarono quanto fossero cresciuti negli ultimi anni, costringendo gli azzurri al pareggio dopo il vantaggio di Gilardino e la clamorosa autorete di Zaccardo su svirgolata. Gli U.S.A. si videro annullare anche un gol, e finirono in 9 contro 10. L’espulsione italiana fu assai grave, De Rossi prese 4 giornate di squalifica per una gomitata a McBride. Nell’ultima partita la qualificazione fu messa al sicuro da Materazzi e Pippo Inzaghi, 2-0 e primo posto che evitava agli azzurri lo scontro negli ottavi con il Brasile.
Agli ottavi, il gioco si fece più duro. Germania e Brasile ebbero ragione facilmente di Svezia e Ghana, vita più dura ebbero l’Inghilterra, che prevalse sull’Ecuador solo grazie ad una punizione di David Beckham, e l’Argentina, che vinse in rimonta sul Messico dopo essere andata addirittura sotto. Stessa sorte toccò alla Francia contro la Spagna, le Furie Rosse andarono in vantaggio ma ancora non era emersa quella che successivamente sarebbe stata la loro supremazia tecnica e si fecero rimontare da Zidane e compagni. La Svizzera fu eliminata ai rigori dall’Ucraina senza aver mai subito nemmeno un gol. Tra Portogallo e Olanda finì a botte, due espulsi per parte, ma i lusitani segnarono anche un gol mandando a casa gli orange.
Anche l’ultimo ottavo, quello dell’Italia contro l’Australia, fu condizionato da un’espulsione, quella di Materazzi all’inizio del secondo tempo. Gli Aussies erano già apparsi un osso più duro di quanto il loro palmarés facesse supporre, con l’uomo in più fecero vedere le streghe agli Azzurri, che si ritrovarono a dover reggere con le unghie e con i denti lo 0-0 e sperare nei calci di rigore o in un miracolo. Arrivarono tutti e due.
Al 90’ la matricola Fabio Grosso (promosso titolare dopo la cappellata di Zaccardo contro gli U.S.A.) si involò in dribbling dentro l’area fin quasi a presentarsi davanti al portiere australiano, prima di essere abbattuto da un difensore. Ad andare a tirare uno dei rigori più pesanti e importanti della storia recente dell’Italia pallonara ci voleva un gran coraggio, e quel coraggio l’ebbe Francesco Totti, che si presentò sul dischetto con i suoi occhi di ghiaccio e dimostrò che la sua gamba si era ristabilita e non tremava. Francesco lasciò la sua firma sul Mondiale a cui aveva rischiato di non partecipare. Sarebbe stato il suo unico gol, ma assolutamente decisivo.
Si era ai quarti, il disastro azzurro non c’era stato, le cose iniziavano a farsi interessanti. Cominciarono Germania ed Argentina, con i padroni di casa che riuscirono a passare in semifinale solo grazie ai rigori. Gli stessi rigori che misero fuori una volta di più l’Inghilterra, contro il Portogallo. Italia-Ucraina era anche lo scontro tra due attaccanti di livello mondiale, Luca Toni e Andrij Shevchenko. Toccò alla nostra Scarpa d’Oro lasciare finalmente il segno sul Mondiale e mandare avanti la propria squadra con una doppietta, dopo la prodezza iniziale di Zambrotta. In chiusura, rivincita della finale di France 98 tra Francia e Brasile, e riconferma dei Coqs transalpini. Decise Thierry Henry, per il fenomeno Ronaldo l’unica consolazione di aver segnato in questo torneo i tre gol che lo consacravano capocannoniere mondiale di tutti i tempi: 15 gol contro i 14 di Gerd Muller e con un Miroslav Klose in rimonta.
Dortmund, 4 luglio 2006, semifinale del diciottesimo Campionato del Mondo di calcio. Eccoci di nuovo, era ancora una volta Germania-Italia. L’ennesimo appuntamento con il destino per due squadre che avevano fatto la storia di questo sport, soprattutto grazie ai loro scontri diretti. Quel giorno si scriveva di nuovo la storia. I tedeschi cercavano vendetta sportiva, avendo perso all’Azteca ed al Bernabeu. Dalla loro c’era il fattore campo. Gli italiani cercavano la conferma di quello che si erano sentiti crescere dentro, giorno dopo giorno: la forza che nasce dall’essere sopravvissuto a tutto, contro tutto e tutti. Dalla loro c’era il tifo commovente dei nostri emigrati, capaci per numero e passione di pareggiare in quantità e qualità il tifo dei padroni di casa.
Italia-Germania ci aveva sempre abituati a tanti gol. Stavolta i tempi regolamentari finirono 0-0, con occasioni da ambo le parti non trasformate. Ma quelle italiane, a ben vedere, erano state molte di più. Gli Azzurri avevano giocato a viso aperto, come voleva la loro gente, e per lunghi tratti avevano messo sotto i Bianchi di Germania. I supplementari se ne stavano scorrendo via con i due pugili che si assestavano gli ultimi colpi malgrado la fatica, senza che nessuno trovasse il colpo del knock out. Sullo sfondo, lo spettro dei calci di rigore. Ma Italia-Germania non era questo, non poteva finire così. L’appuntamento con la storia arrivò al 119’, quando Pirlo con una magia delle sue inventò un assist micidiale in area tedesca per l’uomo del destino di quel Mondiale, Fabio Grosso, che calciò di prima intenzione ad effetto, non lasciando scampo a Jens Lehmann, il portiere tedesco lanciatosi in un tuffo disperato.
Il secondo gol azzurro di Alessandro Del Piero, un minuto dopo, non tutti lo videro, perché molti erano ancora a festeggiare il primo, urlando di felicità alle finestre di casa. Quando partì Cannavaro in break facendosi metà campo da solo per servire Gilardino che con la coda dell’occhio si vide arrivare Del Piero alle spalle e lo servì a sua volta ad occhi chiusi, poi quando Alex calciò in porta il tiro più bello della sua vita da Pinturicchio uccellando ancora Lehmann con un pallonetto ad effetto, le urla degli italiani d’Italia e di quelli di Germania si fecero eco a vicenda. Andiamo a Berlino! fu il commento del telecronista che sintetizzava l’apoteosi dopo più di un mese di sofferenze. Non dovevamo quasi neanche partire, ed eccoci qua in finale, al posto degli orgogliosi padroni di casa, relegati in quella Stoccarda di infausta memoria per noi nel 1974 a giocare la finale per il terzo e quarto posto. La delusione di Italia 90 era stata restituita, e con gli interessi.
In finale, altro giudizio di Dio, altro conto da regolare. Con i francesi, che avevano eliminato il Portogallo bello ma inconcludente di Luis Figo, negli ultimi 28 anni non avevamo mai vinto. Nelle ultime due circostanze poi,si era trattato di débacles dolorose, i quarti di France 98 con il rigore decisivo sbagliato da Di Biagio e il golden gol di David Trezeguet nella finale di Belgiolanda 2000. Gli Azzurri avevano sete di rivincita e ormai giocavano con il vento in poppa, come nell’82. Il problema era che anche i francesi si sentivano come sopravvissuti miracolati e vedevano uno storico traguardo in dirittura d’arrivo. E poi c’era Zidane, e il problema di marcarlo, come aveva sottolineato Berlusconi nel 2000. Chiedere al riguardo i particolari a Dino Zoff.
Il 9 luglio all’Olympiastadion di Berlino cominciò malissimo. Fallo da rigore su Malouda e trasformazione da brivido di Zidane, traversa e rete. Poi cominciò il Materazzi-show. Il difensore pareggiò a metà primo tempo di testa su calcio d’angolo, poi cominciò a lavorarsi ai fianchi il fuoriclasse francese. Nella ripresa, dopo l’annullamento a Luca Toni del gol del 2-1, nessuna delle due squadre riuscì più a segnare e si andò ai supplementari.
Le squadre sembravano stanche, e soltanto un episodio avrebbe potuto spezzare l’equilibrio. Al 111’ l’incredibile: Materazzi disse qualcosa a Zidane (non sapremo mai esattamente cosa) e il francese tornò sui suoi passi e lo colpì con una testata al petto. All’arbitro Elizondo non restò che espellerlo, e l’immagine di Zizou che rientra mesto negli spogliatoi passando accanto alla Coppa del Mondo sembrò un buon auspicio per un’Italia che si ritrovò a giocarsi una volta di più il suo destino ai calci di rigore.
Era la seconda volta che una finale mondiale veniva decisa dal dischetto, e ancora una volta c’era proprio l’Italia di mezzo. Nel 1994 aveva pianto, ed il Brasile aveva sorriso. Stavolta le lacrime furono per Trezeguet (che commise l’unico errore della serie restituendoci il golden gol del 2000) e compagni, mentre gli Azzurri schizzavano ad intercettare Fabio Grosso, il ragazzo che era andato oltre il sogno diventando in pochi giorni l’eroe di una nazione intera, che aveva appena trasformato l’ultimo, decisivo rigore.
Stavolta, al cronista che non era più lo storico Nando Martellini, toccò urlare quattro volte Campioni del Mondo!, perché i titoli erano diventati quattro. Sepp Blatter non si smentì, rifiutando di scendere a premiare gli italiani, che si premiarono praticamente da soli. Quando Cannavaro alzò la Coppa, il mondo diventò finalmente quella giostra di colori che Bennato e Nannini avevano cantato nell’ormai lontano 1990.
Era notte fonda, e il cielo sopra Berlino non era mai stato così azzurro.
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