Jules Rimet non era soltanto uno sportivo, ma anche un politico e un diplomatico di rango. Fin dalla nascita del Football, non era sfuggita a nessuno la sua valenza sociale e propagandistica. In un mondo e in un tempo in cui le masse si affacciavano prepotentemente alla ribalta della storia, il gioco del calcio si stava affermando rapidamente come lo sport più popolare. Di massa, appunto. Rimet fu il primo dei dirigenti della FIFA a comprendere che il gioco del pallone si doveva emancipare dall’ottica strettamente decoubertiniana, dallo spirito di Olimpia, e crearsi una propria autonomia, ritagliarsi un proprio spazio nel panorama dello sport internazionale. Essere progressivamente sempre meno sport e sempre più business.
Se nel 1930 era sembrata una buona idea assegnare la prima edizione del Mondiale di calcio alla Svizzera del Sudamerica, quell’Uruguay che era emerso nel decennio precedente come economia d’avanguardia e come potenza calcistica di primo piano, nel 1934 parve altrettanto brillante alla Federazione internazionale guidata da Rimet – antesignano di Sepp Blatter nella ricerca per la sua creatura di nuovi orizzonti e nuove dimensioni, soprattutto remunerative dal punto di vista economico e politico – affidare l’organizzazione della seconda ad un altro paese che a metà degli anni 30 era sulla cresta dell’onda.
Anzitutto doveva essere un paese europeo. Secondo la regola dell’alternanza stabilita fin dall’inizio, i due continenti dove il gioco aveva allora la massima diffusione ed il massimo sviluppo dovevano organizzare la manifestazione una volta per ciascuno. In Europa, nel 1934 l’Italia di Benito Mussolini era un paese che sembrava davvero cavalcare la tigre del successo, destinata a fortuna e progresso, accreditata di ottima stampa e in generale del favore dell’opinione pubblica internazionale per il modo in cui il regime fascista la stava tirando fuori dall’arretratezza contadina facendone un paese moderno ed efficiente a tappe forzate.
Mussolini del resto aveva fin dai primi tempi del suo governo attribuito una grandissima importanza alle manifestazioni sportive. Non soltanto a fini propagandistici, ma anche come fattore di emancipazione di una popolazione in gran parte rurale, arretrata e divisa nei particolarismo che il Risorgimento aveva solo cominciato a cercare di superare. Il nostro era stato tra quei paesi che avevano rifiutato la costosissima trasferta in America Latina quattro anni prima, ma aveva poi subito presentato la propria candidatura per il primo mondiale europeo. La FIFA decise di accontentarlo, calcolando che l’Italia in camicia nera avrebbe offerto al mondo una grande edizione dei Campionati del Mondo di Calcio.
Roma, Milano, Bologna, Firenze, Napoli, Trieste, Torino e Genova diventarono sedi dei match della seconda edizione della Coppa del Mondo, per designare le squadre partecipanti alla quale stavolta furono necessari incontri di qualificazione. Il numero dei partecipanti rispetto a Uruguay 1930 era infatti consistentemente salito. L’Europa allora era ancora il centro del mondo, per di più raggiungibile da più continenti. L’Uruguay boicottò l’edizione italiana come rappresaglia per quanto era successo quattro anni prima, ma Brasile, Argentina e Stati Uniti affrontarono il viaggio, e addirittura ci fu la partecipazione della prima squadra africana, l’Egitto. La parola mondiale cominciava ad assumere un senso reale.
Agli incontri di qualificazione allora partecipava anche la nazione ospitante. L’Italia affrontò la Grecia a Milano e la sconfisse per 4-0. Quella azzurra era una squadra notevole, rafforzata dai cosiddetti oriundi, come Luisito Monti, Raimundo Orsi ed Enrique Guaita che avevano disputato già la finale di Montevideo nel 1930 dalla parte degli sconfitti, gli argentini. I primi due erano poi venuti in Italia a far parte del ciclo vincente della Juventus, che dal 1931 al 1935 vinse cinque scudetti a fila (record eguagliato solo nel 2010 dall’Inter, e poi negli anni successivi superato dalla stessa Juventus), il terzo si accasò alla Roma. Tutti furono poi naturalizzati italiani in quanto discendenti di emigrati. Non senza qualche polemica, alla quale tagliò corto il selezionatore Vittorio Pozzo facendo riferimento al fatto che gli oriundi avevano prestato anche servizio militare per il nostro paese: «Se possono morire per l’Italia, possono anche giocare per l’Italia».
Vittorio Pozzo era un ex giocatore di calcio, che a suo tempo aveva preso parte tra l’altro alla fondazione del Torino Football Club. Era stato anche un ufficiale degli Alpini nella prima Guerra Mondiale. Commissario Unico della nazionale fin quasi dalla sua istituzione, aveva portato nel mondo del pallone un piglio militaresco che gli era rimasto dalle sue esperienze belliche. La squadra concepita come un plotone in cui vigeva una disciplina militare, i ritiri pre-partita di cui fu l’inventore fecero di lui una leggenda, un caposcuola prima ancora del trionfo mondiale.
La squadra che mise in campo aveva già vinto la Coppa Internazionale nel 1930 (una specie di Campionato d’Europa ante litteram) e poté permettersi di lasciare a casa il fuoriclasse dell’epoca, Fulvio Bernardini, ritenuto tatticamente – e umanamente – indisciplinato. Ma quella squadra ne aveva diversi altri di fuoriclasse. Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi, questa era la formazione dell’Italia che sulle maglie azzurre aveva lo scudetto tricolore sormontato dallo stemma reale di Casa Savoia, e che cominciò la sua cavalcata il 27 maggio a Roma allo Stadio Nazionale, poi Flaminio, surclassando gli Stati Uniti per 7-1.
Fu quindi nei Quarti la volta della Spagna, il 31 maggio a Firenze allo Stadio Giovanni Berta, poi Comunale, poi Artemio Franchi. Gli iberici, che avevano eliminato il Brasile, erano una squadra di tutto rispetto, capitanata da una delle leggende dell’epoca, il portiere Ricardo Zamora Martinez. Una vera e propria saracinesca. Fu uno scontro epico, ripetuto a 24 ore di distanza perché terminato in parità (non c’erano i famigerati calci di rigore che avrebbero in seguito funestato tante successive partecipazioni azzurre). Reguedo portò in vantaggio gli spagnoli, Ferrari pareggiò – pare – grazie anche ad una irregolarità di Meazza su Zamora, in occasione della quale il portierone iberico si infortunò.
Su questo episodio si costruì la leggenda dei favori arbitrali verso l’Italia, per favorirne una vittoria finale assai gradita al regime fascista. La squadra comunque c’era, e vinse per 1-0 la ripetizione della partita il giorno dopo, con rete di Meazza. Rispetto al primo match gli azzurri avevano cambiato quattro titolari a causa della stanchezza, gli spagnoli addirittura sette, tra cui il mitico Zamora. Ci fu anche una rete annullata alle Furie Rosse, che gettò comunque un’ombra sul successo italiano.
In semifinale, l’Italia affrontò il Wunderteam, la squadra che veniva accreditata come la più forte dell’epoca in Europa, dopo i maestri inglesi che però all’epoca si tenevano sdegnosamente al di fuori di ogni competizione internazionale. L’Austria del fuoriclasse Matthias Sindelar, allenata dal santone Hugo Meisl, se l’era date di santa ragione nei Quarti con l’Ungheria (con la quale sopravvivevano vecchie tensioni risalenti all’Impero Austro-Ungarico). In semifinale Meisl prevedeva una nuova battaglia, con esiti però sconfortanti: «temo l’Italia, ma temo di più l’arbitro».
Vinsero gli azzurri allo Stadio San Siro di Milano (poi intitolato a Peppin Meazza) con un gol di Guaita, secondo alcuni anche in questo caso favorito da una irregolarità di Meazza sul portiere austriaco. Molti commentatori neutrali parlarono di mondiale pilotato nelle mani dell’Italia di Mussolini. Nell’altra semifinale si erano intanto scontrate Cecoslovacchia e Germania, avevano vinto i cechi per 3-1 e adesso avrebbero affrontato gli azzurri in finale.
Il 10 giugno a Roma, alla presenza del Duce, gli azzurri andarono sotto grazie ad un gol di Puc, poi rimontarono con Orsi e nei supplementari scatenarono l’entusiasmo della gente italiana sugli spalti del Nazionale o incollata alla radio segnando il gol della vittoria con Schiavio. Al fischio finale dell’arbitro svedese Eklind, Jules Rimet consegnò a Vittorio Pozzo la Coppa che un giorno avrebbe portato il suo nome , ma soprattutto a Benito Mussolini, che celebrò fatalmente uno dei più eclatanti successi del suo regime.
Ma quello che contava era che la Coppa era tornata in Italia, dopo esserne partita a bordo del Conte Verde quattro anni prima. E vi sarebbe rimasta adesso per quattro anni.
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