Calcio

Storia dei Mondiali di calcio: Messico 1970

mexico70-180305-001Sul muro esterno del Estadio Azteca di Città del Messico, il più grande impianto sportivo di quel paese ed il terzo in assoluto al mondo per capienza, c’è una targa commemorativa che recita: Vencido y vencedor siempre con honor. Fu posta dai messicani a perenne ricordo di quella partita che si era giocata in quello stadio il 17 giugno 1970 durante i Mondiali di calcio che si stavano svolgendo nel loro paese. Una partita così bella e avvincente da meritare a detta di tutti coloro che vi assisterono, parti in causa o neutrali, l’appellativo di partido del siglo, game of the century, partita del secolo.

Dopo la swinging London dei Beatles e di Abbey Road, di Mary Quant e di Carnaby Street, di Bobby Moore che riceve la Coppa Rimet dalle mani di Elisabetta II così come Francis Drake aveva ricevuto il titolo di baronetto da quelle di Elisabetta I, non era facile trovare una location altrettanto suggestiva per l’edizione successiva della World Cup. La FIFA ci riuscì quasi per caso, grazie ad una intuizione che come tutte le idee geniali in seguito sarebbe stata riproposta raramente.

I Giochi della XIX Olimpiade erano stati assegnati a Città del Messico. Le imprese leggendarie di Bob Beamon con il suo salto in lungo record per molti decenni a venire, di Tommy Smith che aveva dedicato l’oro nei 200 metri al Black Power e alle nascenti Black Panthers, insieme al connazionale e confratello John Carlos vincitore del bronzo, erano state esaltate e tecnicamente favorite dall’altura a cui si svolgevano le gare nell’antico paese degli Aztechi, ai quali era stato dedicato addirittura lo stadio, originariamente intitolato a Sant’Ursula e poi al presidente della Federcalcio locale Guillermo Canedo. Oltre all’Azteca, molte strutture sportive messicane erano state ammodernate, e allora perché non assegnare a quel paese dopo la XIX Olimpiade anche la IX Coppa Rimet?

Juanito, la mascotte di Mexico 70

Juanito, la mascotte di Mexico 70

Messico e nuvole, la faccia triste dell’America, recitava una canzone che Enzo Jannacci rese celebre proprio nel periodo dei Mondiali di calcio. Il paese che condivideva il confine nord con gli Stati Uniti era conosciuto allora praticamente solo a chi aveva nozioni di storia o di letteratura – magari poliziesca – nordamericana. Il Messico fu una scoperta per il mondo, e non solo dal punto di vista calcistico. L’edizione del Mundial che vi si disputò dal 31 maggio al 21 giugno 1970 fu comunque memorabile (soprattutto per il suo epilogo), ed anche di contenuto tecnico tra i più elevati dell’intera storia della Coppa del Mondo.

Ai nastri di partenza del torneo messicano si presentarono tutte le squadre che avevano vinto fino a quel momento la Coppa Rimet. Di queste, tre giocavano il matchball per aggiudicarsela definitivamente: Italia, Brasile ed Uruguay. Oltre alle finaliste di quattro anni prima, Inghilterra e Germania Ovest, era presente inoltre l’U.R.S.S. che per tutti gli anni sessanta aveva dominato i campionati europei (vincendo il primo nel 1960, arrivando in finale nel 1964 battuta dalla Spagna ed in semifinale nel 1968 superata dall’Italia ma soltanto alla monetina). Mancavano formazioni storiche come Spagna, Jugoslavia ed Ungheria, c’erano Belgio, Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria, Svezia, oltre ai padroni di casa del Messico, ovviamente. Quattro gli esordienti assoluti: Israele (che disputava le qualificazioni nei gironi europei a causa del rifiuto dei paesi arabi o filoarabi di avere rapporti di qualsiasi genere con la nazione della Stella di David), Marocco, Perù ed El Salvador.

L’Italia si presentava sulle alture messicane dopo vent’anni di bocconi amari ingoiati nelle cinque precedenti edizioni della Coppa, dopo esserne stata la dominatrice anteguerra. Da 32 anni non superava neanche il primo turno eliminatorio, e addirittura nel 1958 non era riuscita a qualificarsi, lasciando il biglietto per la Svezia alla modesta Irlanda del Nord. Ma i segnali di ripresa negli ultimi tempi c’erano tuttavia stati.

Il campionato italiano era combattuto da formazioni di valore assoluto. Il Milan di Gianni Rivera e l’Inter di Sandro Mazzola avevano dominato anche in Europa, ad essi si era aggiunta la Fiorentina di Picchio De Sisti e proprio nell’anno dei mondiali il sorprendente Cagliari di Manlio Scopigno, uno di quegli allenatori sui generis che il nostro calcio ogni tanto produce. I sardi avevano messo una squadra di prim’ordine al servizio di uno dei più straordinari attaccanti di tutti i tempi, forse il più forte in assoluto dal dopoguerra ad oggi: Gigi Riva da Leggiuno, che una volta arrivato nell’isola non aveva voluto andarsene più, finendo per esserne incoronato re  dai suoi abitanti.

Riva abbraccia Rivera dopo il gol del 4-3 alla Germania Ovest

Riva abbraccia Rivera dopo il gol del 4-3 alla Germania Ovest

I tifosi non solo del Cagliari avevano preso a chiamarlo con un soprannome significativo e leggendario, datogli dal giornalista sportivo per eccellenza Gianni Brera: Rombo di Tuono, ad indicarne la potenza devastante. Con quella potenza Giggirriva dalla Sardegna avrebbe portato anche la Nazionale azzurra sul tetto del mondo, ridandole coscienza di sé, orgoglio e risultati. A tutt’oggi Rombo di Tuono detiene il record di marcature in azzurro, 35 gol di cui 3 furono segnati in Messico. Con lui la Nazionale italiana aveva trionfato nel campionato d’Europa casalingo del 1968, dopo il sorteggio in semifinale con i russi e la ripetizione della finale con la Jugoslavia.

Inserita nel girone di Uruguay, Svezia ed Israele, l’Italia male assortita e mal guidata di altre edizioni avrebbe probabilmente inciampato, rientrando anzitempo a casa tra fischi e pomodori. La squadra allenata da Ferruccio Valcareggi si limitò invece ad una partenza in sordina. L’1-0 di Domenghini alla Svezia fu capitalizzato al massimo, con l’ 0-0 contro l’Uruguay che ci poteva anche stare e quello contro Israele che ci stava decisamente molto meno. Il girone di Puebla e Toluca fu quello dei pareggi, e l’Italia con quattro punti si ritrovò in testa e qualificata ai quarti contro la seconda del girone A, i padroni di casa del Messico finiti dietro all’U.R.S.S. per differenza reti.

Dall’altra parte del tabellone, Brasile ed Inghilterra si disfecero di Cecoslovacchia e Romania, mentre Germania Ovest e Perù rimandarono a casa Marocco e Bulgaria. Al Brasile toccava quindi un quarto di finale abbordabilissimo con i peruviani. Agli inglesi, superati nel girone dai carioca grazie ad un gol di Jairzinho, toccava concedere ai tedeschi la rivincita di Wembley. Completava il quadro l’inedito Uruguay – U.R.S.S.

O Rey

O Rey

I quarti di finale si giocarono tutti nella giornata del 14 giugno. Come da copione, i brasiliani si disfecero del Perù con un 4-2 che presentò al mondo una nazionale carioca forse ancora più forte di quelle che avevano vinto in Svezia e Cile (qualcuno dice la più forte di sempre), con Pelé che stavolta non era stato bersagliato da cattiva sorte e tacchetti avversari e guidava un’orchestra di suonatori straordinari. L’Uruguay ebbe ragione dell’U.R.S.S. solo a tre minuti dalla fine dei tempi supplementari, quando già incombeva lo spettro della monetina.

L’Inghilterra andò sul 2-0 all’inizio della ripresa, e già pregustava una vittoria molto più facile di quella che le era valsa il titolo quattro anni prima, ma a venti minuti dalla fine Kaiser Franz Beckenbauer suonò la carica ai suoi e poco dopo pareggiò Seeler. Anche qui la sfida fu risolta solo a pochi minuti dalla fine dell’extra-time e dal sorteggio. Fu il Gigi Riva tedesco, Gerd Mueller, a segnare il gol della vittoria – e della vendetta – per una Germania che dall’inizio dei tempi non aveva fino ad allora mai battuto gli storici rivali inglesi.

Nell’ultimo quarto l’Italia dimostrò di non essere appagata dall’aver finalmente superato un turno eliminatorio ai Mondiali per la prima volta dai tempi di Vittorio Pozzo. Il Messico andò in vantaggio al 13’, poi fu goleada azzurra con Riva e Rivera. Come nel 1938, nei quarti l’Italia aveva dunque brillantemente eliminato i padroni di casa, un segno decisamente beneaugurante. Nel turno successivo le toccava quella Germania Ovest che a quel punto godeva i favori del pronostico per aver superato i campioni del mondo in carica e per mostrarsi ancora più forte di quanto non fosse al mondiale inglese.

Ma anche l’Italia era più forte di quanto non fosse apparsa da tanto tempo a quella parte. Il 17 giugno gli azzurri scesero in campo consapevoli di non aver niente da perdere, di essere forti anch’essi e di poter dare una enorme soddisfazione ai nostri emigrati in Germania ed in ogni parte del mondo. Il gol di Boninsegna all’8’ sembrò regolare subito la questione, i tedeschi non riuscirono a pareggiare nel corso dei 90 minuti, fino al terzo minuto di recupero allorché il milanista Schnellinger (“proprio lui….”, commentò il mitico telecronista Nando Martellini) batté Albertosi a sorpresa quando nessuno ormai ci credeva più.

La Germania era di nuovo ai supplementari, l’Italia parve vedersi sfuggire il sogno di una nuova finale 32 anni dopo Colombes allorché Poletti segnò al suo portiere una sfortunata autorete, subito per fortuna pareggiata da Burgnich. Al 104’ Rombo di Tuono riportò avanti gli azzurri alla sua maniera travolgente. Al 110’ Gerd Mueller segnò fortunosamente il 3-3, con Rivera che sembrò quasi scansarsi dalla traiettoria del pallone. Narra la leggenda che l’abatino (come lo chiamava il solito Gianni Brera) per sfuggire ad un Albertosi che aveva voglia di strozzarlo fuggì in avanti, ma non avendo più fiato rimase indietro rispetto ai compagni che si erano ributtati all’attacco con rabbia, per riagguantare vantaggio e finale. Quello che successe nel minuto seguente è documentato nei fotogrammi che sono impressi indelebilmente negli occhi di più di una generazione. Domenghini, che fugge sulla destra seminando i difensori tedeschi con i suoi polmoni d’acciaio, rimette la palla al centro leggermente arretrata. In quel mentre arriva del suo passo proprio lui, Gianni Rivera, che tocca in controtempo spiazzando imparabilmente Sepp Maier.

4-3, Italia in finale, apoteosi italiana dopo gli anni bui delle sconfitte, della difficile ricostruzione di una identità morale nazionale, gioia incontenibile dei nostri emigrati malgrado le cacce all’uomo tedesche, inizio della leggenda nera per i tedeschi, che fino al 2016 li ha voluti sempre sconfitti dagli azzurri quando li incontrano in match che contano per qualche titolo. Il giorno dopo i messicani decisero d’impulso di porre la targa sul muro dello stadio, estasiati per aver ospitato quella che tutti definirono la più bella partita di sempre. Alle due federazioni protagoniste fu consegnata anche una coppa speciale che riproduceva la scritta fatidica: Vencido y vencedor siempre con honor.

Ma la Coppa che contava ormai per gli azzurri era la Rimet. Nell’altra semifinale il Brasile aveva regolato l’Uruguay 3-1. All’atto conclusivo erano giunte due delle tre squadre che avevano già vinto due volte. Non c’erano dubbi, da regolamento il 21 giugno la Coppa intitolata a Jules Rimet sarebbe stata in palio per l’ultima volta, dopodiché avrebbe preso la strada di Roma o di Rio. Dopo nove edizioni era giunta la fine della storia.

Félix, Brito, Piazza, Carlos Alberto, Clodoaldo, Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé, Rivelino, Everaldo. Era una squadra da favola, costruita intorno alla Perla Nera per vincere la sospirata terza coppa e consegnare il Brasile ad un posto unico nella storia e nella leggenda del calcio. Forse sarebbe stata dura comunque per i nostri superare questi avversari. Sta di fatto che pur stremati dai supplementari con i tedeschi gli azzurri Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato, Bertini, Riva, Domenghini, Mazzola (Rivera), De Sisti, Boninsegna, uno squadrone niente male anch’essi, riuscirono soltanto a mettere tanta paura ai più quotati avversari. Ma tanta.

Italia - Brasile, sfida finale per la Coppa Rimet

Italia – Brasile, sfida finale per la Coppa Rimet

Al 15’ del primo tempo Pelé era volato in aria, e c’era rimasto per lunghi interminabili secondi prima del colpo di testa che aveva battuto Albertosi per l’1-0 carioca. Sembrava discorso chiuso, ma al 37’ Boninsegna aveva sfruttato una papera di portiere e difesa avversaria segnando l’1-1. I verdeoro erano rientrati negli spogliatoi attanagliati dal terrore di non farcela. L’Italia teneva botta senza paura, e continuò a farlo fino al 66’, quando Gerson trovò un gol da lontano che piegò le gambe agli italiani. Il Brasile, liberato dall’angoscia, ne segnò poi altri due con Jairzinho e Carlos Alberto, portandosi via la coppa per sempre.

Agli italiani al rientro in patria toccarono incredibilmente i pomodori anche stavolta, per la rabbia e la delusione di tifosi che avevano fatto la bocca ad un clamoroso terzo titolo mondiale. Dimenticato tutto, a cominciare dall’impresa con i tedeschi e dall’essere arrivati secondi ad un soffio dalla leggenda immortale, dopo decenni di buio.

Ma Mexico 70 fu per l’Italia ben altro che la sconfitta in finale contro Pelé & C. Fu la rinascita di un paese, prima ancora che di una Nazionale. Fu soprattutto Italia-Germania 4-3. Per chi c’era, e anche per chi ne ha sentito inevitabilmente parlare dopo da padri e nonni che non potevano dimenticare, ogni volta che gli occhi si chiudono ecco gli italiani che battono la palla al centro, Domenghini che fugge sulla destra e rimette al centro…..ed ecco che al limite dell’area arriva Rivera e…….

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Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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