Nel 1986 toccava di nuovo al Sudamerica. Paese organizzatore designato della tredicesima edizione dei Campionati Mondiali di calcio sarebbe stata la Colombia, un’altra delle zone martoriate di quel sub-continente in cui sembrava che il grande divario tra oligarchie smisuratamente ricche e popolazioni in grandissima parte spaventosamente povere non lasciasse altro destino che essere il sanguinoso campo di battaglia tra gruppi guerriglieri di ispirazione più o meno comunista e forze repressive militari e/o paramilitari.
La Colombia, che aveva l’aggravante di essere terreno fertile per il narcotraffico, a proposito del quale già dagli anni cinquanta-sessanta si erano costituiti i primi cosiddetti cartelli che avevano influenza sempre crescente sui governi locali, quale che fosse il loro colore, aveva vissuto un alternarsi di colpi di stato, attentati terroristici e tentativi di ricomposizione costituzionale tra liberali e conservatori. Alla cerimonia di chiusura dei Mondiali di Spagna era già evidente che il quadro politico presentato dal paese sudamericano difficilmente avrebbe consentito di ospitare l’edizione successiva.
Proprio nel 1982 il nuovo presidente Belisario Betancourt aveva tentato una normalizzazione del paese, avviando un dialogo con le fazioni della guerriglia. Ma l’anno dopo si vide, tra le altre cose, costretto a restituire alla F.I.F.A. l’incarico ricevuto anni prima. Tra l’altro, la stessa F.I.F.A. aveva complicato le cose non solo alla Colombia ma a qualsiasi paese aspirante organizzatore dei Mondiali, portando il campo dei partecipanti a 24 squadre ed esigendo il rispetto di una serie di standards: almeno 12 stadi da 40.000 posti, 4 da 60.000 e 2 da 80.000, dotati di una rete di infrastrutture che a Bogotà in quel momento si potevano soltanto sognare. Inoltre, come di prassi inveterata, il carrozzone F.I.F.A. pretendeva una serie di benefits per insediarsi nella terra dei Mondiali, tra cui una serie di agevolazioni nelle tariffe. La Colombia non poteva permettersi una simile invasione di cavallette, e passò la mano nel 1983.
A quel punto, a tre anni scarsi dal fischio d’inizio della gara inaugurale dei tredicesimi mondiali, ci fu un solo paese che si dichiarò disposto ad ereditarne l’onere. Il Messico aveva già avuto in casa il grande circo del calcio nel 1970, le sue strutture avevano bisogno soltanto di una rinfrescata e di una tutto sommato contenuta modernizzazione. Nulla vietava – a termini di regolamento – che si tornasse là dove si era già stati, in una bella edizione del torneo tra l’altro. E Messico fu, per la seconda volta.
Ma in quegli anni evidentemente gli dei ce l’avevano con il calcio, perché nel 1985 Città del Messico ed altre località del paese furono devastate da una serie di terremoti che causarono complessivamente oltre 10.000 morti e danni a strutture che richiesero oltre 2 miliardi di dollari di investimenti per la ricostruzione. La vecchia terra degli Aztechi stavolta sembrava in ginocchio, ma Huitzilopotchli e Quetzacoatl alla fine volsero un occhio più benevolo verso il loro popolo, che alla fine ce la fece a rimettersi in piedi a tempo di record.
Il 31 maggio 1986 l’Italia poté tornare in quello stadio Azteca che conosceva molto bene per disputare la partita inaugurale del secondo Mundial messicano. Era un torneo che ritornava a battere vecchie piste anche nella formula con cui si disputava: niente più deliranti gironi all’italiana nella seconda fase, si tornava all’eliminazione diretta dagli ottavi in poi, passavano le prime due di ognuno dei sei gironi e le migliori quattro classificate tra le terze.
Da quel 31 maggio al 29 giugno successivo, le squadre che avrebbero lottato per togliere la Coppa d’oro all’Italia erano Belgio, Bulgaria, Francia, Germania Ovest, Inghilterra, Spagna, Danimarca, Irlanda del Nord, Polonia, Portogallo, Scozia, Ungheria ed URSS per l’Europa, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay per il Sudamerica, Canada e Messico per il Nordamerica (che aveva la sua federazione separata dal resto del continente), Algeria e Marocco per l’Africa, Corea del Sud e Iraq per l’Asia. Mancava l’Oceania, che poi voleva dire o Australia o Nuova Zelanda.
L’Italia che tornava in Messico per difendere il suo titolo mondiale era parente alla lontana di quella che l’aveva conquistato quattro anni prima. La maggior parte dei campioni del Bernabeu avevano chiuso il proprio ciclo in azzurro due anni prima mancando la qualificazione agli Europei francesi del 1984. Cecoslovacchia e Romania erano risultate ostacoli troppo alti per i vecchi guerrieri di Bearzot. La finale di Madrid era stata la partita n. 400 della Nazionale italiana. Già la n. 401 era stata da dimenticare, con la Svizzera che aveva rovinato la festa azzurra nell’amichevole celebrativa del settembre 1982 a Roma. A Città del Messico Enzo Bearzot portò alcuni dei senatori giusto per allungare la lista fino ai 22 previsti. In pratica, il solo Spillo Altobelli era ancora nei suoi cenci, come si suol dire, gli altri andavano in panchina, mentre in campo andavano quelle che una volta erano le seconde linee, oppure una nuova generazione che stentava a mostrarsi all’altezza della vecchia.
Come ogni buon padre di famiglia che si rispetti, Bearzot aveva faticato non poco a staccarsi dai suoi figli, da quella squadra che aveva raccolto 10 anni prima dalle mani di Fulvio Bernardini e che aveva allevato, cresciuto giorno dopo giorno fino alla vittoria mondiale. E solo tardivamente aveva volto lo sguardo a cercare dei sostituti, che peraltro ancora non c’erano. In più aveva commesso l’errore madornale di tenere i due eredi in pectore di Dino Zoff, il viola Giovanni Galli (già in squadra in Spagna come terzo portiere) ed il giallorosso Franco Tancredi in ballottaggio – cioè di fatto sulle spine – fino al giorno prima del mondiale messicano, risolvendosi a scegliere il fiorentino solo all’ultimo momento e facendolo arrivare abbastanza scarico all’appuntamento più importante della sua carriera.
Nel 1983 era venuto inoltre a mancare Artemio Franchi, figura carismatica e assai rispettata in ambito internazionale di dirigente della Federcalcio italiana e dell’UEFA. La ricaduta in termini di peso politico degli azzurri non si fece attendere. La F.I.F.A. si inventò un girone con due teste di serie, Italia e Argentina, che sommate a Bulgaria e Corea del Sud lo qualificavano come molto impegnativo. Il 31 maggio all’Azteca Altobelli riprese dove aveva lasciato quattro anni prima, segnando il primo gol messicano dopo aver segnato l’ultimo spagnolo. Il vantaggio azzurro resse fino a cinque minuti dalla fine, allorché Syrakov soprese Galli in elevazione e complicò la vita ai detentori del titolo.
Nella seconda partita, l’Italia iniziò molto bene mettendo sotto l’Argentina di Maradona. Ancora Altobelli sbloccò il risultato su rigore, ma stavolta il vantaggio resse solo fino al 34’. Maradona ricevette palla a centro area e, come ha raccontato in seguito Giovanni Galli, ipnotizzò il nostro portiere con lo sguardo del cobra, lasciando partire un tiro tutt’altro che irresistibile ma dalla traiettoria beffarda e diabolica. Dopodiché, gli argentini non osarono di più, memori di otto anni prima a Buenos Aires. Gli italiani avevano esaurito il loro momento migliore, fini 1-1, come tra bulgari e coreani.
Tutto era rimandato alla terza partita. Valdano e Burruchaga liquidarono i bulgari, gli azzurri invece andarono avanti con il solito Spillo, poi si fecero riprendere. Dovevano segnarne molti per passare avanti all’Argentina, e invece finì solo 3-2. La Corea decisamente non portava bene ai nostri colori, l’Italia finì seconda e sommersa di critiche, con la prospettiva di affrontare nel suo ottavo di finale la Francia campione d’Europa di Roi Michel Platini, qualificatasi insieme all’URSS. Negli altri gironi, Messico, Paraguay e Belgio si univano a Brasile e Spagna, a Danimarca, Germania Ovest ed Uruguay e a Marocco, Inghilterra e Polonia.
Non era un mondiale di altissimo contenuto tecnico fino a quel momento, salvo poche eccezioni. Era un mondiale destinato comunque a proseguire senza l’Italia. Il 17 giugno a Città del Messico Platini e compagni misero a nudo il re italiano. Al gol del fuoriclasse transalpino seguì quello di Stopyra, che chiuse di fatto l’epopea di Enzo Bearzot e di più di 10 anni gloriosi. Negli altri ottavi, il Belgio sorprese per 4-3 la bellissima URSS del colonnello Lobanovsky nella partita più bella del mondiale, il Messico ebbe ragione della Bulgaria, il Brasile della Polonia, l’Inghilterra del Paraguay, la Germania Ovest del Marocco, la Spagna della Danimarca con ben cinque reti, e per finire l’Argentina vinse il derby del Rio de la Plata battendo 1-0 l’Uruguay.
I biancocelesti erano una squadra ben diversa da quella che aveva vinto il titolo otto anni prima. Ormai era stata presa per mano dal pibe de oro, Diego Armando Maradona, che aveva estromesso tutti gli elementi a lui sgraditi, a cominciare dallo storico capitano Daniel Alberto Passarella, l’unico forse che poteva stargli alla pari in quanto a carisma. Ma il talento di Diego era tale, ed esplose in maniera talmente eclatante a quel mondiale, che tutto gli fu perdonato. A cominciare dal gol più irregolare della storia del calcio.
Il 22 giugno all’Azteca andò in scena la rivincita della guerra delle Falkland-Malvinas. L’Inghilterra era una squadra probabilmente non inferiore all’Argentina, con il cannoniere di quel mondiale tra le sue fila, Gary Lineker. Ma i biancocelesti tra le loro fila avevano il numero uno del mondo, ribattezzato per l’occasione la Mano de Diòs. Solo l’arbitro non vide il nuovo colpo del cobra, il tocco di mano con cui Dieguito mandò la palla alle spalle di Shilton. Entusiasmo argentino ed esecrazione inglese (e del resto del mondo), ma non ci fu quasi tempo per stigmatizzare la scorrettezza. Poco dopo il numero 10 argentino prese palla nella sua metà campo e se ne andò via, scartando mezza Inghilterra e mettendo ancora in rete. Dal gol più irregolare al gol più bello del mondiale, e uno dei più belli di sempre. Finì 2-1, e da quel momento i pronostici andarono a convergere sull’Argentina.
Negli altri quarti la Germania Ovest eliminò il Messico ai calci di rigore, e sempre ai rigori il Belgio fece fuori la Spagna e soprattutto la Francia eliminò il Brasile. I carioca erano meno brillanti di quattro anni prima ma erano inveleniti alla caccia del quarto titolo. L’eliminazione finì dunque per bruciare quanto quella di Barcellona ad opera dell’Italia. In semifinale, l’Argentina ritrovava il Belgio e la possibile vendetta della partita inaugurale in Spagna, la Francia ritrovava la Germania Ovest e anche lei aveva una vendetta da compiere.
I tedeschi erano alle prese anche loro con un ricambio generazionale, apparentemente più facile di quello italiano. La Francia invece era all’apice di un ciclo iniziato addirittura in Argentina, ma l’esperienza non le bastò. Stavolta i poco brillanti ma estremamente solidi tedeschi andarono in vantaggio subito e ci restarono fino alla fine. Dall’altra parte, due gol di Maradona fecero sembrare per l’Argentina la partita con il Belgio una pratica semplice da liquidare.
La finale del 29 giugno cominciò bene per i biancocelesti, l’erede di Passarella, Brown, e Jorge Valdano misero subito due gol nella saccoccia tedesca, ma i tedeschi non mollano mai. Il vecchio Rummenigge ed il giovane Voeller riaprirono il discorso all’80’. Che fu chiuso due minuti dopo da una rasoiata del pibe che mandò in porta Burruchaga.
Alla Germania rimase in mano il classico bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. All’Argentina la seconda coppa del mondo della sua storia. Stavolta una coppa che si poteva festeggiare senza remore, visto che il paese da due anni era ritornato alla democrazia. Pumpido, Brown, Cuciuffo, Ruggeri, Batista, Giusti, Burruchaga, Enrique, Olarticoechea, Maradona e Valdano si misero in fila sulle gradinate dell’Azteca per andare a ricevere il trofeo dalle mani di un non troppo entusiasta presidente della F.I.F.A., il brasiliano Joao Havelange. In realtà, il mondo aveva occhi soltanto per lui, indiscutibilmente il miglior giocatore non solo di quel torneo appena conclusosi. Il campione del mondo Diego Armando Maradona.
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