«I Mondiali del 1942 non figurano in nessun libro di storia, ma si giocarono nella Patagonia argentina»
(Osvaldo Soriano, Il figlio di Butch Cassidy, Cuentos de los años felices, 1993)
La Storia, quella ufficiale, ci dice che al fischio finale dell’arbitro Georges Capdeville a Colombes, Parigi, il 19 giugno 1938, mentre la Coppa Victory riprendeva la via dell’Italia campione per la seconda volta consecutiva, le nazionali di calcio si dettero appuntamento quattro anni dopo in Brasile. Ma quell’appuntamento non fu mai rispettato, perché ne sopravvenne un altro, molto più tragico e dolorosamente importante. Quello con la Seconda Guerra Mondiale, la più grande battaglia per la civiltà della storia umana.
La Coppa che sarebbe stata intitolata al suo ideatore Jules Rimet rimase per ben dodici anni nella cassaforte della Federazione Italiana Gioco Calcio, si salvò dai rastrellamenti tedeschi grazie al suo presidente Ottorino Barassi (che finì per nasconderla sotto il proprio letto), e finalmente nel 1950 poté riattraversare l’Atlantico per la seconda volta in vent’anni diretta verso il Brasile e la quarta edizione della Coppa del Mondo. Di un mondo che in qualche modo era sopravvissuto all’Armageddon.
Fin qui la storia ufficiale. Nel 1942 l’Europa era un lebensraum tedesco, l’Asia un Dai Nippon Teikoku, l’Impero del Grande Giappone, le uniche potenze del calcio non cancellate nel frattempo dal mappamondo geopolitico, l’Inghilterra e l’Italia, avevano altro a cui pensare che non al football. La Germania non aveva mai ottenuto vittorie calcistiche di prestigio, né prima né durante il Nazismo, ma anche lei aveva troppa carne al fuoco al momento. E del resto le avversarie, almeno sul campo di gioco, latitavano.
Ma l’America Latina è da sempre un posto particolare, dove storia, leggenda e sogno si intersecano continuamente. Dove il serpente alato Quetzacoatl e il Dio cristiano dei Conquistadores convivono tutt’oggi creando una mitologia che si sostituisce spesso se non sempre alla realtà, come nelle visioni indotte o favorite da sostanze dai poteri magici come il peyote o simili. Dove grandi scrittori sono capaci di portarti con sé su un terreno dove distinguere ciò che è vero da ciò che è immaginario diventa impossibile, come disperdere i fumi provocati da troppa tequila.
Osvaldo Soriano è, a parere di chi scrive, il più grande scrittore argentino, se non di tutto il Sudamerica, di sempre. La storia che inserì nei suoi Racconti degli anni felici è, come tutte le sue storie di vita e di calcio, fatta apposta per affascinare fino a rendere superfluo il riscontro con la realtà. E’, in ogni caso, la storia che tutti vorremmo che fosse accaduta veramente, e non importa se non lo sapremo mai con certezza. Basta che sia verosimile, suggestiva, intrigante. Che parli al cuore con le sue magiche parole. E che lasci il cervello da parte, a fare quello che crede. Basta che non disturbi.
Lungo la Cordigliera delle Ande, di storie se ne raccontavano e se ne raccontano tante. Una delle più suggestive era quella del figlio di uno dei banditi più leggendari di ogni tempo. Butch Cassidy era un Yanqui, uno Yankee del Norte, de los Estados Unidos, che aveva concluso la sua carriera di fuorilegge nelle terre del Sud, in fuga dalla Pinkerton e dalle polizie di tutto il continente. Sulla sua fine le voci e le leggende si susseguivano, così come sul fatto che si era lasciato dietro un figlio, William Brett Cassidy, destinato a ripetere le gesta del padre e a molto di più: ad essere addirittura l’arbitro della finale dei Mondiali di Calcio.
Nel 1942, la Patagonia era un’isola felice, uno dei pochi posti al mondo risparmiati dalle fiamme della guerra. Dalla metà dell’Ottocento i suoi abitanti combattevano una battaglia disperata per non cadere sotto il giogo dell’Argentina e del Cile che volevano sfruttarne le notevoli risorse agricole. Gli Indios Mapuches, per evitare di fare la fine dei loro cugini delle grandi praterie statunitensi, avevano avuto un’idea che era sembrata geniale: offrire la corona del loro regno ad un europeo, un francese, Orélie Antoine de Tounens, il primo sovrano del regno di Araucania e Patagonia. Un regno che non ottenne il riconoscimento da parte di nessuna delle grandi potenze di allora, e che tra vicende da operetta e altre un po’ più tragiche è arrivato fino ai giorni nostri, almeno come presenza surreale e rivendicazione dinastica degli eredi di de Tounens.
Nel 1942, ministro plenipotenziario del re di Patagonia in esilio Antonio III era una singolare figura di magnate europeo, il conte Vladimir Otz, di origini balcaniche. Una specie di filantropo illuminista e illuminato, una via di mezzo tra un George Soros ed un Fitzcarraldo di Werner Herzog. Amico personale di Jules Rimet, il conte visionario aveva immaginato di ottenerne l’autorizzazione alla disputa nelle sue terre di Patagonia di una edizione del Mondiale che – se omologata – sarebbe stata la quarta. Alla faccia del resto del mondo che si scannava sui campi di battaglia, il Sudamerica avrebbe avuto il Mundial che gli era stato negato nel 1938 e che una FIFA ridotta in quel momento non meglio del governo francese di Vichy avrebbe avuto la possibilità di organizzare chissà quando.
Dalla favola di Soriano, la storia prende forma nel nostro immaginario attraverso il bellissimo film che ne hanno ricavato i due registi italiani Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni. Presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2011, Il mundial dimenticato ha riscosso il plauso di tutto il mondo non solo cinematografico, ma anche sportivo. La storia di quel mondiale di cui nessuno o quasi aveva saputo nulla ha affascinato tutti, e tutti alla fine siamo arrivati con il fiato sospeso come quel discendente del popolo Mapuche che soltanto negli ultimi fotogrammi scopre chi aveva vinto la finale di quel 1942, fregiandosi per l’eternità del titolo di campeon del mundo.
La vicenda, raccontata tra l’altro dalle voci fuori campo di personaggi del football ufficiale come Gary Lineker, Roberto Baggio, Jorge Valdano, Joao Havelange, prende le mosse dal ritrovamento casuale delle ossa di un cineoperatore, Guillermo Sandrini, argentino di origini italiane, che il conte Otz aveva ingaggiato per «filmare i Mondiali in modo memorabile e rivoluzionario». A Berlino nel 1936 il cinema aveva scoperto lo sport e la politica l’aveva definitivamente adottato a fini di propaganda. Leni Reifenstahl aveva consegnato alla storia le immagini di Olympia. Sandrini avrebbe dovuto fare altrettanto con il Mondiale di Patagonia, anche se i protagonisti del suo film non sarebbero stati tipici esponenti della razza ariana, ma piuttosto personaggi usciti da una commistione di film western, Vite vendute, Questo pazzo pazzo mondo. Di sicuro, grazie al recupero della sua macchina da presa sarebbe stato possibile svelare il mistero di chi aveva vinto quell’edizione fantasma del torneo di calcio più importante del mondo. In un momento in cui il mondo aveva dimenticato se stesso.
Aspettando un riconoscimento formale che non arrivava da Rimet e dalla FIFA, Otz aveva intanto invitato le sue selecciònes attingendo a ciò che offriva il convento. Niente Cile o Argentina, per i quali non esisteva un regno di Patagonia. Poco male, dentro il regno di Patagonia, allora, con l’apporto di Indios Guaranì del Paraguay. E dentro una selecciòn dei Mapuches, gli Indios che sotto certi punti di vista potevano essere considerati come la vera squadra di casa. Dentro il Brasile, subito pronto a fare il contrario di ciò che faceva l’odiata Argentina. Dentro l’Inghilterra, che così partecipava per la prima volta ad un mondiale. Dentro l’Italia, con una selezione di operai antifascisti emigrati per lavoro e per politica. Dentro la Germania, anch’essa con una squadra di operai incaricati della posa di un cavo telefonico transcontinentale, ma fortemente motivati dal regime della Madrepatria a fare grande il nome del Reich. Dentro altre squadre di immigrati, scozzesi, polacchi, russi, uruguaiani, spagnoli, francesi. La Patagonia aveva dato asilo a tanti fuorusciti e disoccupati. Il mondo era ben rappresentato in quei giorni del 1942, laggiù.
Sotto la severa e pericolosa direzione dell’arbitro Cassidy, che dirigeva gli incontri con la fedele colt nella fondina al fianco e che non esitava ad estrarla e a far fuoco – più o meno in aria – quando il gioco in campo si faceva duro, l’Italia dei fuorusciti venne a capo di un girone eliminatorio ai danni del regno di Patagonia e della Polonia. La Germania, tosta e priva di scrupoli dentro e fuori il campo (si parlava di mazzette all’arbitro, il bandito figlio di bandito) dette un’altra delusione al Brasile, l’Inghilterra si levò la prima soddisfazione ufficiale ai danni dell’URSS e dell’Uruguay, i sorprendenti Mapuches vennero a capo di Spagna e Francia.
In semifinale, i tedeschi non avevano mai battuto l’Italia. Che per l’occasione ingaggiò addirittura il fuoriclasse oriundo Ettore Puricelli, detto testina d’oro. Le cronache parlarono di arbitraggio a senso unico a favore dei tedeschi, che non risparmiarono scorrettezze ai danni degli italiani. Cassidy concesse all’Alemania ben tre rigori, che consentirono al Reich di raggiungere la sua prima storica finale con il punteggio di 4-3.
Nell’altra semifinale, gli Indios dettero la prima storica lezione ai maestri inglesi, malgrado la partita fosse arbitrata da un inglese, il maresciallo Parlow. 2-1 e Mapuches in finale a rappresentare la speranza non solo del loro popolo ma di tutto il mondo libero.
Il 19 dicembre 1942, nell’estate a rovescio dell’emisfero sud, a San Carlos de Bariloche, dove in seguito altri tedeschi – stavolta fuorusciti in fuga dalla caccia agli ex nazisti – avrebbero istituito una loro colonia dallo spirito e dall’organizzazione ben diversi, le selezioni del Terzo Reich tedesco e del popolo Mapuche scesero in campo per assegnare il titolo mondiale di quell’anno. In palio, un’imitazione praticamente perfetta di quella coppa che di lì a poco, in Europa, sarebbe finita sotto il letto di Barassi per non finire nelle fonderie di Hitler. E che Otz comunque millantava essere quella originaria.
L’arbitro Cassidy arbitrò da par suo, da delinquente. Ma i Mapuches non si fecero intimidire, né dalla propaganda né dal gioco duro degli avversari. A Berlino aspettavano con ansia il risultato, e l’avrebbero atteso all’infinito. Hitler non avrebbe mai messo le mani sulla Coppa Rimet. Sull’1-1 si abbatté sul luogo della finale un temporale violento che travolse tutto e tutti, a cominciare da Sandrini e dalla sua cinepresa. Nessuno avrebbe saputo come era andata a finire, se era andata a finire in qualche modo, fino al ritrovamento dei resti del cineoperatore che sognava di emulare Leni Reifenstahl, e della sua pellicola miracolosamente intatta. Fino a che Soriano non raccontò da par suo quella storia dai contorni di favola.
Dopo il fortissimo temporale – narra l’autore dei Cuentos -, senza che nessuno se ne accorgesse le porte erano scomparse dal campo, ma le squadre avevano continuato a giocare per ore senza sapere dove tirare per fare gol. I tedeschi erano preoccupati dal fatto che in Germania attendessero con ansia la notizia della loro vittoria, i Mapuches erano incontenibili e imprevedibili, correvano e saltavano per il campo senza schemi, l’arbitro Cassidy – che fosse corrotto o meno – non sapeva cosa fare. Ad un certo punto, dal nulla, su una collina intorno al campo una porta fece la sua apparizione: la palla venne toccata prima da una delle donne araucane che assistevano alla partita e poi fu spinta in rete da un Mapuche. Tutti gli Indios iniziarono ad esultare, ma Cassidy sparò dei colpi di revolver più volte per annullare il gol. Niente da fare, ormai la palla era entrata ed il primo golden gol della storia laureò i Mapuches Campioni del Mondiale di Patagonia 1942.
Il finale di quella storia più struggente è però nel film di Garzella e Macelloni. Sugli ultimi fotogrammi della pellicola di Sandrini, uno degli ultimi superstiti di quel popolo e di quei lontani eventi può esplodere di gioia e gridare rompendo un silenzio durato settant’anni: campioni del mondo!
E’ una storia dell’America Latina, non sapremo mai rispetto alla nostra coscienza occidentale se e quanto è vera o quanto è frutto di quell’immaginario che lungo la Cordigliera Andina sostituisce spesso la realtà. Ma in fondo che importanza ha?
Ci piace pensare che Osvaldo Soriano abbia scritto su questa storia il suo capolavoro. Che Garzella e Macelloni gli siano stati – come raramente accade al cinema che si confronta con la letteratura e con lo sport – assolutamente all’altezza. E che soprattutto a Bariloche per una volta i buoni abbiano vinto sui cattivi. Che in campo, anche se il suo nome non fu poi iscritto in nessun albo d’oro e non ricevette alcun trofeo (il bandito fuggì durante il temporale, portandosi via la Coppa che assomigliava alla Rimet, e da allora di lui le tracce si sono nuovamente confuse con la leggenda), abbia prevalso la squadra che risultò la migliore.
Quante altre volte è successo nella storia del calcio?
Lascia un commento