Shakira inaugura i Mondiali di calcio sudafricani
This time for Africa, cantava Shakira nel 2010. Questa volta toccava all’Africa. Anche se lo avesse voluto, nemmeno l’onnipotente Sepp Blatter avrebbe potuto dire di no a Madiba. E di certo non voleva, perché l’Africa era uno dei mercati emergenti per il pallone verso cui l’Uomo della F.I.F.A. aveva rivolto gli occhi da tempo.
La candidatura sudafricana era stata avanzata nel 2002, quando ancora Nelson Mandela era non soltanto di nome ma anche di fatto il carismatico leader non solo del paese che dalla fine dell’Apartheid aveva assunto la denominazione di Rainbow Nation (il paese dai tanti colori), ma anche e soprattutto di tutti coloro che in tutto il mondo lottavano ancora per l’affermazione dei propri diritti civili e politici.
Nel 2002 era stata l’ora dell’Asia, con Giappone e Corea. Nel 2006 era scoccata di nuovo l’ora della Germania, il cui peso politico ed economico era – piacesse o no – superiore a qualsiasi carisma, compreso quello di Mandela. Ma per evitare spiacevoli scontri, l’Esecutivo della F.I.F.A. aveva comunque convenuto che l’edizione successiva, la XIX^, sarebbe toccata al Continente Nero e per la precisione al paese che aveva assunto la leadership della sua riscossa, grazie a quell’uomo che aveva trascorso 27 anni in carcere a Robben Island, un’isola al largo di Capetown da cui era stato liberato l’11 febbraio 1990 per diventare poco dopo il presidente del Sudafrica e il simbolo della libertà dall’oppressione in tutto il pianeta.
Nelson Mandela aveva creduto profondamente nel valore propagandistico dello sport, come qualsiasi leader politico dotato di un minimo di acume nel ventesimo secolo. Il veicolo funzionava sempre, quello che cambiava semmai era il messaggio. Per Mandela, il messaggio era la fratellanza fra i popoli che lo sport poteva favorire come poche altre cose. L’Apartheid era cessato da soli cinque anni quando il Paese dell’Arcobaleno organizzò i Mondiali di Rugby imponendosi all’attenzione del mondo intero dopo i lunghi anni in cui era stato discriminato e boicottato per la sua politica razzista.
Gli Springbok, la squadra sudafricana, avevano vinto quel Mondiale tirandosi dietro il tifo di una nazione intera, per la prima volta nella sua storia unita per qualcosa. Questo successo, celebrato tra l’altro magistralmente dalla pellicola di Clint Eastwood Invictus (dal nome della poesia di William Ernest Henley che era stata la fonte di ispirazione e consolazione di Mandela nei lunghi anni della prigionia) aveva esaltato la causa del Sudafrica libero e spinto il suo leader a riprovarci. Il Rugby era uno sport popolarissimo in un paese di lingua, cultura e tradizione anglosassone. Ma a livello mondiale non c’era niente che desse visibilità come il Football.
Quando scoccò l’ora del Calcio in Africa, Nelson Mandela era ormai un signore di 92 anni, orgoglioso e splendido nel crepuscolo della sua vita ma che ne portava visibilmente ormai tutto il peso. Un peso aggravato peraltro all’ultimo momento da una sorte tragica. Determinato a presenziare almeno alla cerimonia d’apertura, sarebbe stato costretto a rinunciarvi dal grave lutto familiare causato dalla perdita della vita della sua nipotina tredicenne in un incidente stradale. Era troppo anche per il vecchio guerriero, che si sarebbe affacciato allo Stadio di Johannesburg per un veloce saluto solo per pochi minuti prima della finale. Il Sudafrica ormai doveva imparare a camminare sulle proprie gambe, godendosi peraltro i numerosi doni che Madiba gli aveva lasciato.
Non fu uno scherzo organizzare un Mondiale in un paese che a fatica stava ancora cercando di normalizzare una convivenza civile fra bianchi e neri e che inseguiva una modernizzazione strappandola palmo a palmo alla giungla. Ad un certo punto sembrava che il Sudafrica dovesse soccombere, e qualcuno chiese a Blatter se avesse un piano B, proponendo addirittura un ritorno in Germania, sede dell’ultima edizione del 2006. Blatter, che da bravo svizzero non scherzava con gli affari e gli impegni economici, non si sognava nemmeno di ritornare sulle sue decisioni mettendo a rischio investimenti colossali, e disse chiaramente che esisteva semmai solo un piano C: il Sudafrica, il Sudafrica e ancora il Sudafrica.
Nel giugno 2009 per fortuna, in occasione della F.I.F.A. Confederations Cup (il torneo che tradizionalmente si svolgeva un anno prima nel paese organizzatore del successivo Mondiale tra le vincitrici delle Coppe delle Confederazioni continentali) il mondo poté prendere atto di due cose. La prima, apprezzatissima, era che il Paese dell’Arcobaleno ce l’aveva fatta e che un anno dopo tutto sarebbe stato pronto per il calcio d’inizio della FIFA Sokker Wereldbekertoernooi, come si chiamava la Coppa del Mondo in lingua Afrikaans, la seconda del paese dopo l’inglese, parlata dalla popolazione che che discendeva dalla colonizzazione originaria degli olandesi, i cosiddetti Boeri. La seconda, molto meno gradita, era che il Mondiale si sarebbe svolto al suono ininterrotto delle Vuvuzelas, una sorta di corno tribale riadattato ai tempi moderni capace di assordare e mettere in fuga un branco di elefanti così come il più agguerrito branco di tifosi.
In positivo, c’era che il torneo che si sarebbe svolto dall’11 giugno all’11 luglio non avrebbe sofferto il caldo. Per la prima volta dai tempi di Argentina 1978, il Mondiale tornava nell’Emisfero Australe, e quindi si sarebbe disputato in inverno. Non c’erano novità organizzative, la formula era la solita a 32 squadre con gironi di qualificazione ed eliminazione diretta dagli ottavi. C’erano semmai grosse novità tecniche, che avrebbero determinato il risultato finale.
I campioni del mondo in carica, come già nel 1982, si erano goduti poco o niente il loro titolo. Dopo Berlino, Marcello Lippi aveva valutato giustamente che più di così in una vita professionale (o in una vita in generale) non si poteva fare e aveva dato le dimissioni. Sulla panchina si era seduto Roberto Donadoni, la cui esperienza di allenatore era assai ridotta e non certo vissuta nel grande calcio che conta. E si vide subito, dalla sconfitta in amichevole con la Croazia che avrebbe dovuto festeggiare l’Italia a quattro stelle fino alla tribolata qualificazione all’Europeo 2008 di Svizzera ed Austria, dove la Francia inizialmente si prese la rivincita sulla finale mondiale costringendoci a qualificarci secondi nel girone. A Milano la Marsigliese era stata addirittura fischiata, e l’immagine del calcio italiano, per non dire dell’Italia in generale, non ne aveva certo beneficiato.
All’Europeo, l’Italia aveva finalmente battuto nei tempi regolamentari i francesi per la prima volta dopo 30 anni, estromettendoli dal torneo. Nei quarti, però, era venuto il suo turno di andare a casa, anche se non era stata sconfitta dall’avversario che aveva poi finito per vincere il torneo. I calci di rigore stavolta non erano stati benevoli come a Berlino. Malgrado il risultato non pessimo, la Federcalcio ritenne insoddisfacente e conclusa l’esperienza di Donadoni e fece un errore madornale, quello di richiamare Marcello Lippi, che, sbagliando anche per parte sua, accettò di condurre la squadra a Sudafrica 2010.
Come Vittorio Pozzo ed Enzo Bearzot, Lippi non seppe accantonare le ragioni del cuore favorendo il ricambio generazionale a scapito dei suoi eroi di Germania. Il fatto di non giocare le qualificazioni mascherò molti problemi e illuse circa la possibilità se non di un bis del tecnico viareggino quantomeno di un’altra prestazione alla Lippi, appunto. La squadra che volò in Sudafrica invece purtroppo assomigliava più a quella di Germania 1974 o di Messico 1986 che a quelle che in passato ci avevano dato le maggiori soddisfazioni.
Chi invece stava cominciando a dare soddisfazione ai propri tifosi era la Spagna. Era lei che ci aveva eliminati dall’Europeo, mettendo in mostra il solito gioco arrembante che le aveva meritato lo storico soprannome di Furie Rosse, ma anche e finalmente una consistenza di squadra unita insieme alle giocate di diversi fuoriclasse che ne facevano stavolta una favorita seria del pronostico. Tante volte la Spagna si era fermata ai confini del sogno, lasciando i propri tifosi in lacrime dopo averli illusi. Dai tempi di Ricardo Zamora fino a quelli di Luis Butragueno, le camisetas rojas avevano vinto soltanto una volta, all’Europeo casalingo del 1964, e poi si erano sempre arrese o ad arbitraggi discutibili, o alla sfortuna, o alla mancanza di chi poteva finalizzare il suo gioco adeguatamente.
E’ successo di rado nella storia del calcio di assistere ad una concentrazione di campioni nello stesso momento e nello stesso luogo come quella che fin dai primi anni 2000 ha avuto la Spagna. Forse, nel dopoguerra, soltanto negli anni 50 in Ungheria e negli anni 70 in Olanda si è assistito ad un fenomeno del genere. Barcellona e Real Madrid finalmente mandavano nella nazionale iberica dalle rispettive canteras talenti di valore assoluto che non si guardavano in cagnesco per i noti motivi di antagonismo etnico-storico, ma che riuscivano finalmente a collaborare per portare la Spagna dove non era ancora mai stata: sul tetto del mondo. Il vecchio re Juan Carlos, malato, non aveva potuto seguire la squadra in Sudafrica, ma vi aveva mandato il figlio Felipe con la speranza di vederlo tornare con qualcos’altro da aggiungere alla Coppa Europa del 2008.
Oltre a Spagna e Italia, l’Europa iscrisse al Mondiale sudafricano l’Olanda, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, la Danimarca, la Serbia, la Svizzera, la Grecia, la Slovenia, il Portogallo e la debuttante Slovacchia. Il Sudamerica iscrisse l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Paraguay ed il Cile. Il Nordamerica il Messico, l’Honduras e gli Stati Uniti. L’Asia partecipò con Giappone, Sud Corea, Nord Corea (che tornava ai Mondiali per la prima volta dal 1966) e Australia, che era passata dalla federazione dell’Oceania a quella asiatica. L’Oceania schierava la Nuova Zelanda. Per finire, l’Africa partecipava con altre cinque squadre oltre al Sudafrica: Ghana, Costa d’Avorio, Camerun, Algeria e Nigeria.
Al ritmo di Waka! Waka! (cammina! cammina!) di Shakira, i Mondiale si mise in cammino l’11 giugno con la partita inaugurale tra i padroni di casa ed il Messico, terminata in parità. Il loro era un girone di ferro, con Francia e Uruguay. Per il Sudafrica, la festa era consistita nell’organizzare il Mondiale, passare anche solo il primo turno era un’impresa impossibile. La sorpresa fu che i sudafricani si tirarono dietro la Francia nell’eliminazione, lasciando via libera alle due sudamericane. Negli altri gironi, passeggiata dell’Argentina qualificata insieme alla Corea del Sud, ennesima beffa degli USA all’Inghilterra, che passò a fatica per seconda dietro la ex colonia, grande impressione destata dalla Germania in cui militava uno dei fratelli Boateng, naturalizzato, l’altro era rimasto nel Ghana che passò per secondo. Passarono anche una forte Olanda e un sorprendente Giappone, il solito Brasile ed un Portogallo in forma, la Spagna che cominciava la sua cavalcata e il Cile.
Il Mondiale degli azzurri cominciò e finì all’interno di un girone di qualificazione che normalmente avrebbe dovuto essere di tutto riposo. Per la squadra a fine corsa del Marcello Lippi-bis si rivelò una montagna impossibile da scalare. Due pareggi con Paraguay e Nuova Zelanda e una sconfitta con la Slovacchia di Marek Hamsick, sotto gli occhi attoniti non solo del mister ma anche dell’infortunato Gigi Buffon, ridettero una tonalità tenebra all’azzurro. L’Italia tornò a casa tra fischi e insulti dei tifosi, peraltro ingenerosi nell’aver dimenticato in fretta quanto era successo quattro anni prima. Lippi trascorse un’estate da segregato, senza potersi recare in un posto qualunque a pena di ricevere pesanti offese. Nessuno sembrava ricordare più che solo pochi anni prima aveva stretto in mano la Coppa del Mondo.
Nell’Africa Nera, era rimasto il Ghana a difendere l’onore del continente, e continuò a farlo eliminando gli USA agli ottavi, con un gol al 93’. Stesso risultato per l’Uruguay contro la coriacea Sud Corea. L’Olanda ridimensionò i nostri giustizieri slovacchi, il Brasile scherzò con il Cile, il Paraguay eliminò il Giappone ai rigori, l’Argentina regolò il Messico abbastanza facilmente. Nel derby della penisola iberica, la Spagna di David Villa ebbe ragione del Portogallo di Cristiano Ronaldo, facendo salire le sue quotazioni per la vittoria finale. Salirono anche quelle della Germania, malgrado l’errore clamoroso dell’arbitro uruguaiano Larrionda che annullò all’Inghilterra il gol del 2-2. Se il gol di Hurst che dette al vittoria agli inglesi nel 1966 solleva tutt’ora dei dubbi, l’annullamento di quello di Lampard che avrebbe dato loro il pareggio nel 2010 non ne consente: era dentro di almeno un metro.
Ai quarti, Argentina – Germania era una delle tante rivincite, ma né Messi in campo né Maradona in panchina furono condottieri capaci di arrestare la marcia dei tedeschi, che sembravano un rullo compressore. La politica di naturalizzazione di calciatori di origine straniera aveva dato i suoi frutti. Ozil, Boateng e compagnia bella travolsero i biancocelesti per 4-0. Delusione argentina a cui seguì subito quella brasiliana. I carioca si illusero con Robinho, poi Snejider li buttò fuori con due reti delle sue. L’Uruguay eliminò il Ghana ai rigori. La Spagna faticò molto a superare un Paraguay che faceva del catenaccio la sua arma migliore. Casillas dovette parare un rigore, poi il solito David Villa risolse la questione portando le Furie Rosse in semifinale.
Fino a quel momento, il torneo mondiale aveva avuto un esperto in pronostici d’eccezione. Pescato due anni prima nelle acque dell’Isola d’Elba da un sub tedesco, il polpo Paul viveva sereno nell’acquario di Oberhausen, finché qualcuno ebbe la brillante idea di fargli vaticinare i risultati delle partite della nazionale germanica. Fino ai quarti ci aveva sempre indovinato, depositandosi sempre sui colori della sua patria d’adozione. Quando gli chiesero però il risultato della semifinale tra Spagna e Germania, il polpo andò a posarsi sulla bandiera giallorossa (e probabilmente decise così il suo destino, visto che sopravvisse di poco al Mondiale).
Paul aveva ragione. I panzer attaccarono il fortino iberico, che resistette senza tremare. Tutti si resero conto che in qualità c’era solo una squadra superiore a quella Germania, ed era la Spagna. Che al 73’ toccò il cielo con il primo dito quando Puyol buttò dentro di testa il pallone che valeva la prima finale nella storia iberica. Nell’altra semifinale si impose l’Olanda, con l’onore delle armi all’Uruguay che si arrese soltanto per 3-2.
Per Spagna e Olanda era il momento della verità, l’appuntamento con la storia a lungo rimandato. La Spagna era alla prima finale, l’Olanda alla terza, dopo le due degli anni 70 che avevano lasciato l’amaro in bocca a chi tifava per il calcio totale ed i suoi profeti. Gli orange rispetto al 1974 ed al 1978 erano meno belli da vedersi ma sicuramente più tosti. Badavano al sodo, come si suol dire. Forse proprio per questo l’attestato di simpatia più importante arrivò alla Spagna da un olandese, uno che la Spagna la conosceva bene quanto il proprio paese. Johann Cruyff, il Profeta del Gol, aveva scelto il Barcellona come squadra quando aveva lasciato l’Ajax e proprio in Spagna aveva predicato quel verbo che tanti anni dopo stava dando i suoi frutti. Gli spagnoli giocano il calcio come piace a me, non gli olandesi, disse l’ex Pelé bianco. Ad Amsterdam lo maledissero, a Madrid sperarono che il suo pronostico fosse efficace come quello del polpo Paul. Che per la cronaca aveva detto ancora Spagna.
La finale fu roba da uomini duri. I marines olandesi riuscirono a non far giocare i giocolieri spagnoli per quasi tutta la partita. Furono loro anzi ad avere le occasioni migliori con Robben e Snejider che però quel giorno non la beccavano. Come se ci fosse davvero un dio del pallone, all’Olanda veniva negato quello che aveva meritato in passato e che forse per le chances avute non demeritava nemmeno l’11 luglio 2010, all’FNB Stadium di Johannesburg. Ma a differenza del 1954 e del 1974 stavolta la sorte era schierata a favore di chi giocava meglio, in termini di tecnica pura.
Casillas, Sergio Ramos, Piqué, Puyol, Capdevila, Busquets, Xabi Alonso, Xavi, Pedro, Iniesta, Villa erano dei fenomeni, Vicente Del Bosque si poteva permettere di lasciare in panchina gente come Fabregas e Fernando Torres. Alla fine riuscirono a mandare fuori giri gli olandesi, che persero dapprima Heitinga per un fallo assassino. Al 116’, buttatisi in avanti per cercare l’ennesimo assalto, subirono invece il break spagnolo in contropiede, con la palla che arrivava ad Andres Iniesta smarcato sulla destra. Il tiro del fuoriclasse spagnolo era quello del giustiziere e non lasciò scampo al portiere olandese Stekelenburg.
Nel cielo africano risuonarono le note di Que Viva Espana. L’Infante Felipe riportò al padre quella coppa dorata che lui aveva visto soltanto per pochi istanti al Bernabeu nel 1982, prima di lasciarla al presidente italiano Sandro Pertini. Finalmente poteva stringerla in mano, ed offrirla per quattro anni di festa al suo paese.
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