La Coppa Rimet trova il suo “padrone”
I sogni muoiono all’alba, avrebbe scritto Indro Montanelli per raccontare i giorni drammatici della Rivoluzione Ungherese. I sogni magiari di una svolta democratica liberale, insieme a quelli di vittoria per la loro squadra leggendaria, l’Aranycsapat, finirono all’alba del 4 novembre 1956 quando 200.000 uomini ed 4.000 carri armati dell’Armata Rossa entrarono a Budapest e sostituirono il governo liberale di Imre Nagy con quello filosovietico di Janos Kadar. I fuoriclasse che avevano fatto grande la nazionale magiara erano all’estero, e vi rimasero.
Nel 1958, all’avvio della Sesta Edizione della Coppa del Mondo, l’Ungheria era ridiventata una squadra normale. Tra le sedici qualificate, ma non più in grado di procedere oltre il primo turno, per andare a ritentare la sorte che si era dimostrata avversa quattro anni prima in Svizzera. Era inserita tra l’altro nel girone eliminatorio della squadra di casa, una formazione formidabile, zeppa di campioni anch’essa ed in crescita costante per tutto il decennio degli anni Cinquanta.
Durante il torneo svizzero, il board della FIFA si era riunito e aveva deciso che quello seguente si sarebbe tenuto in Svezia. Il paese scandinavo aveva già avanzato la sua candidatura nel 1934, ma gli era stata preferita l’Italia. Stavolta non aveva avversari, malgrado per la regola dell’alternanza fosse nuovamente il turno del continente sudamericano.
La Svezia ebbe dunque i Mondiali, e da quel momento si dedicò ad organizzarli con entusiasmo, e con l’aspettativa anche di vincerli, richiamando in nazionale tutti i campioni che militavano all’estero, come gli italiani Liedholm, Gren e Skoglund, già artefici del terzo posto a Brasile 1950. Ad essi si aggiunse la stella nascente del ragazzo prodigio Kurt Hamrin, il giovane centravanti che per mantenersi aveva fatto l’imbianchino, almeno finché la sua Federazione non gli aveva consentito di passare professionista, per dedicarsi a tempo pieno al calcio ed alla gloria della sua Nazionale. Non avrebbe fatto rimpiangere l’ormai vecchio glorioso Nordhal. Nel 1958 era già una stella del campionato italiano.
Con simili fuoriclasse in squadra, la Svezia era la favorita d’obbligo per la conquista del titolo. Eppure, dopo le prime tre edizioni della Coppa Rimet che erano andate secondo pronostico, sembrava che il torneo mondiale avesse acquisito stabilmente una caratteristica di imprevedibilità. In Brasile ed in Svizzera avevano vinto degli outsider su cui nessuno avrebbe scommesso contro squadroni strafavoriti dal pronostico. Anche la competizione che prese il via l’8 giugno 1958 allo Stadio Rasunda di Solna, un sobborgo di Stoccolma, tempio del calcio svedese, avrebbe riservato una grossa sorpresa.
Il suo nome era Edson Arantes do Nascimento. La sua leggenda si sarebbe chiamata Pelé. Cominciò al Mondiale scandinavo. Ogni epoca ha avuto il suo giocatore più forte di tutti i tempi, ed è giusto che sia così, fino alla fine del tempo e del calcio. Ma la perla nera, come l’avrebbero soprannominato i suoi tifosi estasiati, aveva qualcosa in più di ogni altro. La sua eleganza, le sue movenze quasi da ballerino classico anche nei gesti atletici più semplici ne avrebbero fatto uno spettacolo vivente a prescindere dagli oltre mille gol segnati in carriera e dagli innumerevoli trofei conquistati.
Era il gioiello più prezioso di un Brasile che di gioielli era pieno. Gilmar, Djalma Santos, Nilton Santos, Zito, Bellini, Orlando, Garrincha, Didì, Vavà, Pelé, Zagalo, era una formazione che i ragazzi dell’epoca avrebbero imparato a memoria, come si conviene a quelle destinate ad incantare la fantasia ed a passare alla storia. Vicente Feola, il selezionatore carioca che poteva permettersi di lasciare a casa un fuoriclasse come Julinho, era partito dalla madrepatria diretto di là dall’oceano per dare finalmente quella soddisfazione ai suoi compatrioti che da quasi trent’anni sfuggiva loro beffardamente.
Alla Sesta Edizione del Mondiale di Calcio parteciparono sedici squadre, dodici europee e quattro sudamericane. Ma più delle partecipanti in un primo momento avevano fatto scalpore le assenti. Dei precedenti cinque titoli assegnati, quattro non risposero all’appello. L’Uruguay e l’Italia non staccarono il biglietto per Stoccolma. La celeste fu eliminata a sorpresa nelle qualificazioni dall’assai meno quotato Paraguay. La Nazionale azzurra, affidata ad Alfredo Foni, ex terzino campione del mondo nel 1938 e tecnico dell’Inter, che complice anche la politica di naturalizzazione selvaggia attuata dalla FIGC la riempì dei cosiddetti oriundi, andò a cacciarsi in una trappola ambientale che le sarebbe costata, per la prima (e purtroppo non unica) volta nella sua storia, la partecipazione al torneo mondiale.
L’Italia era inserita in un girone comprendente Irlanda del Nord e Portogallo. La qualificazione sembrava ampiamente alla sua portata. Gli oriundi erano gente che rispondeva ai nomi di Ghiggia, Schiaffino, Montuori, Pesaola, roba sopraffina di provenienza sudamericana, ex campioni del mondo addirittura, innestati sui blocchi di Fiorentina e Milan che all’epoca erano vincenti. Gente a cui in un modo o nell’altro si era trovato un nonno o un bisnonno italiano. I ragazzi di Foni vinsero la prima a Roma contro i nordirlandesi, ne presero tre in Portogallo e li restituirono a Milano. A Belfast sarebbe bastato pareggiare per qualificarsi.
Il 4 dicembre 1957 gli azzurri si presentarono nella capitale della Nord Irlanda. L’arbitro ungherese Zsolt era rimasto bloccato a Londra dalla nebbia, invece. La partita fu declassata ad amichevole, finì 2-2 e avrebbe dovuto essere un utile campanello d’allarme per gli italiani. Gli irlandesi la misero sul piano fisico, i talentuosi sudamericani furono spesso surclassati, volarono botte da orbi. La radiocronaca del celebre Niccolò Carosio passò alla storia, quasi un resoconto di guerra.
Foni non imparò nulla da quell’esperienza. Quando gli italiani tornarono a Belfast il 15 gennaio 1958 per la ripetizione del match, schierò la stessa squadra presuntuosa e inadeguata, con cinque punte e due mezze punte, sbilanciata in attacco quando le sarebbe bastato un pareggio per andare in Svezia. Alla fine del primo tempo stava già sotto di due gol, Zsolt espulse Ghiggia per fallo di reazione e a nulla valse il gol della bandiera di Da Costa nella ripresa. L’Italia restò a casa, macchiando così per la prima volta il suo ruolino mondiale che l’avrebbe vista altrimenti come unica sempre qualificata al pari del Brasile, a parte l’edizione del 1930 a cui aveva rinunciato per motivi logistici. In Scandinavia ci andò l’Irlanda del Nord.
Dall’8 al 29 giugno 1958 il mondo si ritrovò quindi – senza di noi – a Stoccolma e dintorni per stabilire chi sarebbe stato il nuovo campione del mondo. A parte Svezia e Brasile, c’erano poche squadre in grado di entusiasmare con il loro gioco. Le sedici qualificate erano state divise in quattro gruppi, con eliminazione diretta dai quarti in poi. Nel primo, l’Irlanda del Nord continuò a sorprendere affiancandosi alla Germania Ovest campione in carica nel passaggio del turno a spese di Cecoslovacchia e Argentina. Nel secondo, Francia e Jugoslavia ebbero la meglio su Paraguay e Scozia. Fra i transalpini si mise in mostra colui che sarebbe diventato capocannoniere in quella edizione e recordman assoluto di sempre, Just Fontaine con 13 gol. Tra gli slavi, brillò la stella di Vujadin Boskov.
Nel terzo gruppo la Svezia ebbe facilmente ragione della ridimensionata Ungheria e del Messico, portandosi dietro il sorprendente Galles. Nel quarto, Brasile e U.R.S.S. (che faceva il suo debutto ai mondiali) passarono il turno a spese dell’Inghilterra, che con tre pareggi andò a casa insieme all’Austria. Nei quarti la Francia regolò facilmente l’Irlanda del Nord, la Svezia l’U.R.S.S., il Brasile il Galles e la Germania Ovest la Jugoslavia. A parte la valanga di gol segnati dai francesi, non era stato fino allora un mondiale entusiasmante. In semifinale una Germania Ovest meno brillante di quattro anni prima ma pur sempre solida dovette inchinarsi ai padroni di casa per 3-1, mentre il Brasile dette luogo ad uno spettacolo pirotecnico contro la Francia, 5-2 a Fontaine e soci.
Al Rasunda il 29 giugno si trovarono di fronte le favorite del pronostico. Nessuna squadra aveva mai vinto al di fuori del proprio continente, e la Svezia veniva da un decennio di risultati egregi. In più giocava in casa, e re Gustavo Adolfo si preparava in cuor suo a incoronare gli eroi della sua nazione con il trofeo calcistico più prestigioso, la Coppa Rimet. Al 3’ i padroni di casa erano già in vantaggio, con Liedholm che si era bevuto mezza difesa verdeoro. Ma stavolta i brasiliani avevano più classe che presunzione, ed erano anche più giovani degli avversari che per quanto forti erano alla fine di un ciclo, mentre loro erano appena all’inizio. Al 9’ Vavà aveva già pareggiato, ridando morale ai suoi che da quel momento avevano cinto d’assedio l’area svedese.
Il pareggio resse fino al 32’, quando ancora Vavà batté il portiere scandinavo Svensson. La Svezia crollò su quel gol, a cui si aggiunsero poi quello di Pelé dopo un beffardo pallonetto sul marcatore al 55’ e quello di Zagalo con una potente conclusione da fuori al 68’. Simonsson accorciò le distanze all’80’ e ancora la perla nera al 90’ fissò il risultato finale sul 5-2 per i carioca, che poterono finalmente impazzire di gioia per la conquista del primo alloro mondiale.
Fu a Garrincha e compagni che Gustavo Adolfo dovette rassegnarsi a consegnare la Coppa Rimet, riponendo nel cassetto mestamente il sogno svedese. Non c’era dubbio che la stella di quel mondiale – e del futuro più o meno prossimo – era il diciassettenne ragazzo che nella sua terra chiamavano Pelé. Il cui ciclo era destinato a coincidere con quello della stessa Coppa Rimet. Un giorno, prima nel suo paese e poi in tutto il mondo, lo avrebbero chiamato semplicemente O Rey.
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