Calcio

Storia dei Mondiali di calcio: Uruguay 1930

Quando la FIFA lo aveva designato come paese ospitante la prima edizione dei Mondiali di Calcio nel 1930, l’Uruguay era sembrato il candidato ideale. Anzitutto la sua nazionale – la celeste, come era chiamata a causa del colore delle sue camisetas – era campione olimpica in carica da ben due edizioni, Parigi 1924 e Amsterdam 1928. Inoltre, l’anno in cui sarebbe stato disputato il torneo sarebbe coinciso con il centenario dell’indipendenza del paese dalla Spagna prima e dal Brasile poi, conquistata al termine della lunga lotta condotta dal patriota José Artigas.

L’Uruguay infine era una realtà politica ed economica particolare, in un continente sudamericano all’epoca già scosso da tensioni sociali fortissime per di più acuite dalla crisi mondiale di fine anni 20, che favorivano la continua ascesa e caduta di dittatori militari o populisti un po’ in tutta l’America Latina. A Montevideo invece da circa vent’anni si respirava un clima di progresso civile e di sviluppo economico, da quando il presidente Ordonez aveva avviato una specie di socialismo di stato, con l’introduzione di un welfare state ante litteram e di una netta separazione tra Stato e Chiesa.

In un momento in cui la stessa Europa era scossa dagli effetti della crisi del ’29 e vacillava sotto i colpi inferti dall’insorgere dei movimenti di destra che avrebbero portato all’affermazione delle grandi dittature, a Jules Rimet il paese sudamericano era sembrato la scelta ideale. Di certo non si era aspettato che costituisse al contrario il casus belli della prima grana diplomatica della storia dei Mondiali. Già dal 1926 in aperta polemica con la sua gestione inevitabilmente francofila, le quattro federazioni britanniche avevano stabilito una sorta di apartheid, boicottando qualsiasi manifestazione promossa dalla federazione internazionale.

Nel 1930 il boicottaggio del mondiale assunse le dimensioni di una valanga. L’America all’epoca era raggiungibile soltanto in nave, al termine di un viaggio estenuante per gli atleti e gli staff tecnici e assai costoso per le federazioni, che non beneficiavano di alcuno sponsor che non fosse il rispettivo governo. Oltre ai maestri inglesi, le più forti nazionali dell’epoca dissero di no una dopo l’altra: Austria, Cecoslovacchia, Spagna, Italia, Germania, Svizzera, Ungheria. Dall’Europa dettero la loro adesione solo Belgio, Romania e Jugoslavia, evidentemente non certo il Gotha del calcio, anche all’epoca. Lo stesso Rimet si adoperò inoltre affinché almeno la sua Francia fosse della partita, riuscendovi dopo non pochi sforzi e sacrifici anche economici.

Il Sudamerica in compenso partecipò in massa, con un entusiasmo secondo solo alla passione assai poco sportiva che i vari paesi stavano riversando sul gioco del pallone, visto da subito come strumento di propaganda politica nonché modo per regolare i conti con i propri più o meno odiati vicini. Per un uruguaiano infatti non c’era niente di più detestabile di un argentino o di un brasiliano, e viceversa. Il calcio insomma era la continuazione della guerra con altri mezzi. Il mondiale uruguaiano prometteva di essere qualcosa di simile alla tregua di Olimpia nell’Antica Grecia, allorché le città-stato deponevano momentaneamente le armi altrimenti sempre lorde del sangue reciproco, per continuare a sfidarsi nei vari sport.

Oltre all’Uruguay, Argentina, Brasile, Perù, Bolivia, Cile, Paraguay, Messico e Stati Uniti si dettero appuntamento a Montevideo il 13 luglio 1930, data di inizio ufficiale del Mondiale. Le quattro nazionali europee, assieme a Jules Rimet, alla coppa che un giorno avrebbe portato il suo nome ed all’entourage della federazione, si erano imbarcate a Genova sul piroscafo italiano Conte Verde per compiere la traversata oceanica verso la nuova Olimpia del football.

A Montevideo nel frattempo era stato costituito un nuovo impianto, el Estadio Centenario, appositamente per il torneo mondiale. L’opera era stata realizzata in soli otto mesi al costo di un milione di dollari (cifre che oggi fanno sorridere, con un velo di amarezza) e poteva contenere fino a centomila spettatori. Fu inaugurato il 18 luglio per l’esordio della nazionale di casa contro il Perù, ovviamente vittorioso. Lo stadio, dichiarato in seguito nel 1983 monumento del calcio mondiale, ospitò tutti gli incontri della celeste fino alla finale.

Le gare inaugurali di quel campionato, le prime gare in assoluto della storia della Coppa del Mondo di Calcio, furono giocate e vinte dalla Francia e dagli Stati Uniti rispettivamente contro Messico e Belgio. Il francese Lucien Laurent segnò il primo storico gol dei Mondiali. Suddivise in quattro gironi, le 13 squadre partecipanti espressero le quattro semifinaliste: Uruguay, Argentina, Jugoslavia (che eliminò a sorpresa il Brasile) e Stati Uniti. In semifinale con l’identico punteggio di 6-1 Uruguay e Argentina si sbarazzarono rispettivamente degli jugoslavi e dei nordamericani, e finalmente si ritrovarono di fronte per la finale.

Quelle che scesero in campo domenica 30 luglio allo stadio Centenario più che due rappresentative nazionali sembravano due eserciti assetati di sangue. Uruguayani e argentini si odiavano come fratelli, secondo il detto popolare. I due paesi dirimpettai rispetto all’estuario del Rio de la Plata, con le capitali Montevideo e Buenos Aires che si fronteggiano come Scilla e Cariddi, avevano una lunga storia di rivalità sfociata spesso nel sangue. Alla loro cruenta rivalità aveva preso parte perfino l’Eroe dei Due Mondi, Giuseppe Garibaldi, nel periodo dell’esilio tra la Prima e la seconda Guerra di Indipendenza italiana.

Anche nel 1930 c’erano degli oriundi a combattere da una parte e dall’altra. Il più famoso era il temibile argentino Luisito Monti, un centromediano duro come un mastino feroce che dopo il mondiale avrebbe riscoperto le sue origini italiane e sarebbe venuto alla corte di Vittorio Pozzo. Dall’altra parte, personaggi leggendari come il mitico Andrade e come Hector Castro detto el monco, a causa dell’incidente che in tenera età l’aveva privato della mano destra.

Arbitro dell’incontro il migliore dell’epoca, il belga Jean Langenus, che al pari di molti giocatori ricevette la sua dose di minacce di morte (nel suo caso da ambo le parti). Langenus pretese una assicurazione sulla vita a beneficio della famiglia rimasta in Europa, nonché un piroscafo pronto a salpare nella rada di Montevideo nel caso la situazione fosse precipitata. A quelle condizioni soltanto fischiò l’inizio di quella prima storica finale. Fu deciso che si sarebbe giocato un tempo con il pallone uruguayano ed un tempo con quello argentino, fino a questo punto era arrivata la rivalità e la diffidenza reciproca.

La finale era la ripetizione di quella olimpica del 1928, a detta di molti cronisti dell’epoca la più bella partita di sempre. Ad Amsterdam aveva vinto l’Uruguay, che andò in vantaggio per primo anche stavolta con Dorado. L’Argentina rimontò con Peucelle e con Stabile, altro oriundo, e andò al riposo sul 2-1. Negli spogliatoi, il capitano Andrade – detto la maravilla nigra – strigliò i suoi compagni della celeste, «l’Argentina deve essere battuta ad ogni costo!».

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I primi campioni del mondo, la “celeste”

Pareggiò Cea, Iriarte dette il vantaggio ala squadra di casa, Castro il monco chiuse il discorso sul 4-2. La Coppa Victory sarebbe rimasta in Uruguay per i successivi quattro anni. L’Argentina ruppe le relazioni diplomatiche con il paese prospiciente, il consolato uruguaiano di Buenos Aires fu preso a sassate. I giocatori argentini furono chiamati conejos (conigli) y codardos dalla stampa del loro paese. A Montevideo fu proclamata festa nazionale per quindici giorni, mentre molti giocatori di entrambe le finaliste prendevano la via dell’Europa, principalmente dell’Italia alle cui fortune calcistiche avrebbero molto contribuito negli anni successivi.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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