Nella foto: classifica finale campionato 1977-78
Dopo due campionati conclusi al quinto e quarto posto, Liedholm passò la mano a Radice, giovane tecnico emergente, che però non riuscì a fare meglio del più famoso collega. Per qualche motivo la nuova Fiorentina non decollava, rimanendo dietro ai blasonati squadroni del nord e alla Lazio di Maestrelli e Chinaglia che viveva in quegli anni il suo periodo migliore. Neanche Radice convinse, e allora fu il turno di Nereo Rocco. Il paron triestino era a fine carriera, dopo i trionfi milanesi, e non volle o non seppe dannarsi l’anima a cavare qualcosa di più da questa squadra di ragazzi sempre sul punto di esplodere ma che non ci riusciva mai. Nel frattempo, era stato ceduto De Sisti, dei campioni dello scudetto resistevano solo Brizi, Superchi e Merlo, Antognoni incantava e diventava titolare fisso della Nazionale, ma per quanto grande fosse la sua arte, la squadra più di tanto non lo poteva seguire e molti talenti venivano via via ridimensionati.
Ugolini viveva anche un periodo di crisi nella sua azienda, il che riduceva le possibilità di investimento nel calcio. Nel 1975 esplose anche la contestazione, con Desolati e Speggiorin che dopo l’ennesima prestazione casalinga deludente vennero rincorsi dai tifosi inferociti per il Viale dei Mille. Al campionato mediocre concluso all’ottavo posto fece da contraltare la Coppa Italia, vinta sul Milan di Rivera e Chiarugi e destinata a restare a lungo l’ultimo trofeo aggiunto dai viola alla propria bacheca.
Il nuovo tecnico preso al posto del pensionando Rocco, Carlo Mazzone non ancora soprannominato er Magara ma piuttosto affettuosamente chiamato dai tifosi fiorentini stroncapettini per la sua incipiente calvizie, non poté sedersi in panchina perché le carte federali non glielo permettevano ancora, e all’Olimpico con la squadra scese in campo il secondo, Mario Mazzoni.
Dopodiché, la stella di Ugolini e della sua Fiorentina declinò irreparabilmente. Roggi e Guerini si infortunarono gravemente, il primo in un incidente di gioco e il secondo in un incidente d’auto, e le loro carriere finirono bruscamente. I sostituti non erano all’altezza, risorse economiche da investire ce n’erano sempre meno, ci si affidava esclusivamente al vivaio, ma i giovani che facevano sfracelli nella Primavera al momento di fare il salto nella serie maggiore si perdevano. Mazzone riuscì a concludere il campionato del 1977, quello del lungo derby tra una Juventus ed un Torino di un’altra categoria, al terzo posto ma staccato di quindici punti dalla seconda, la squadra granata appunto.
L’anno dopo tornò di scena il dramma. Ugolini aveva preso la presidenza nel 1971, all’indomani di una salvezza per il rotto della cuffia, e la lasciò nel dicembre 1977, mentre la squadra si trovava di nuovo impelagata in una lotta per non retrocedere, ancora più drammatica se possibile. Alla fine lo stress per le vicende viola unito a quello per le vicende della propria azienda diventarono per lui insopportabili, e pur rimanendo proprietario fino al 1980, delegò la presidenza prima a Rodolfo Melloni e poi ad Enrico Martellini, suoi ex collaboratori. Al primo toccò ricostruire un minimo di squadra e di ambiente dopo la salvezza al cardiopalma del 1978, ingaggiando il tecnico Paolo Carosi al posto del salvatore Chiappella che aveva a sua volta preso il posto dell’esonerato Mazzone. Al secondo toccò invece traghettare la società verso i nuovi proprietari, i Pontello, famiglia emergente dell’imprenditoria edile fiorentina, e presto anche nazionale.
Nel 1978 dunque, la Fiorentina sfiorò la retrocessione per la seconda volta dopo quella del 1971, aggrappata al piede ferito di Antognoni e ai gol dell’ultima scoperta viola, Ezio Sella. Salva per miracolo, all’ultimo minuto.
La storia di quel campionato drammatico è scolpita nella memoria di chi c’era al pari di quella dei campionati vittoriosi. La Fiorentina cominciò male il torneo 1977-78, e lo proseguì peggio. Alla prima giornata si fece rimontare dal Milan in casa, alla quinta andò sotto di cinque gol a Torino contro la Juventus (partita in cui la crisi del portiere Carmignani spinse Mazzone a far esordire un giovanissimo Giovanni Galli). Alla nona, quando andò a Bologna a giocare un surreale derby dell’Appennino, la Fiorentina era ultima in classifica con tre punti. I padroni di casa rossoblu ne avevano appena uno in più. Vinsero i viola in mezzo alla nebbia ed alla disperazione con un gol di Andrea Orlandini all’87°, ma cambiò poco. Quel campionato proseguì come una rincorsa al sogno sempre più lontano di rimanere in una serie A da cui Firenze non si era più separata dopo gli anni 30. Nel dopoguerra era una delle poche squadre mai retrocesse. Stavolta sembrava invece che fossimo proprio arrivati alla fine.
30 aprile 1978. Alla penultima giornata la Fiorentina, che nel frattempo era passata dall’esonerato Mazzone al suo secondo Mario Mazzoni, a sua volta dimissionario in favore del capitano di lungo corso Beppe Chiappella (uno degli eroi del primo scudetto), andò a Pescara condannata a vincere, dopo aver dissipato tutte le occasioni di salvezza possibili ed immaginabili. Retrocedevano in tre allora, e per issarsi al quartultimo posto i viola avevano un solo risultato utile: vincere o morire.
E invece andarono addirittura sotto. Ci pensò Claudio Desolati a pareggiare e a tenere vive le ultime illusioni, più che le speranze. Ma serviva a poco, la ripresa scorse via drammatica e scialba. Solo un miracolo poteva salvare ormai la Fiorentina. E il miracolo quella volta avvenne.
Era scoccato il 90°. L’arbitro concesse ai viola un calcio di punizione dal limite dell’area pescarese. Era l’ultima chance. Sarebbe stata un’ottima chance, perché nella squadra fiorentina militava Giancarlo Antognoni, che oltre a tutto il resto era anche un grande specialista dei calci piazzati. Peccato che Antonio giocasse dall’inizio dell’anno con una fastidiosa tarsalgia che ne aveva limitato considerevolmente il rendimento. L’unico dieci si trascinava quasi su una gamba sola, e avendo già sbagliato un rigore in quella partita, a battere quell’ultima, disperata punizione lasciò il posto a Galdiolo. Che se la cavava anche lui abbastanza bene, ma che in preda all’emozione la calciò male, svirgolandola. Su quella svirgolata ecco la mano, anzi il piede del destino.
Il destino si chiamava Ezio Sella, ragazzino di Roma cresciuto nella Viterbese e arrivato in sordina a Firenze proprio quell’anno. Anno disastrato, con i veterani Desolati, Casarsa e Prati in crisi nera, tanto che a quel punto il capocannoniere era diventato proprio lui, con sei reti.
I fotogrammi indelebili di quel calcio di punizione, visti e rivisti tante volte nella mente da chi c’era, mostrano il pallone carambolare dal piede di Galdiolo a quello di Sella, e di lì infilarsi nella porta sguarnita proprio da quel rimpallo. Fiorentina sul 2-1, per la prima volta nella stagione fuori dalla zona retrocessione, con una sola partita da giocarsi in vantaggio di punti e differenza reti su Bologna, Genoa e Foggia, nonché lo stesso derelitto Pescara.
Dell’ultima partita, uno spareggio micidiale con il Genoa di Roberto Pruzzo, tutti ricordano la cappa di piombo scesa sullo Stadio Comunale, il tempo che non passava mai sui cronometri, le radioline accese che raccontavano delle altre che vincevano, di un Foggia salvo a spese delle due squadre in campo, che esauste e impaurite aspettavano ormai soltanto di veder sanzionato il proprio destino. Fino a sei minuti dalla fine, quando Tutto il calcio minuto per minuto annunciò che a San Siro Scanziani aveva segnato, che per la seconda volta dopo il ’71 l’Inter era la nostra benemerita avendoci tirato fuori dai guai. Che la Fiorentina era salva, mentre il Genoa retrocedeva. Sulle tribune, tanta gente piangeva senza vergognarsene, liberando la tensione accumulata per otto mesi.
Restavano un ambiente e una squadra da ricostruire, con poche risorse. Restava soprattutto l’orgoglio, simboleggiato da quel leone del Brivido Sportivo che con indosso una maglia viola ed appoggiato ad una A a carattere cubitale rivolge al mondo una sonora pernacchia. Un orgoglio che venne fuori anche grazie alla posizione coraggiosa della società di allora e di Ugolino Ugolini in persona, in merito a una questione che ai fiorentini stava a cuore quanto la salvezza.
La Juventus, non contenta di quello che aveva già, lanciò l’assalto a quello che le mancava, il nostro n.10. Nell’estate del 1978, con la Fiorentina appena salva e Firenzevchevsi riprendeva dalla grande paura, l’Avvocato ritenne giunto il momento di prendersi il gioiello della corona viola e fece un’offerta di quelle che non si potevano rifiutare, soprattutto nell’Italia di allora targata FIAT.
Ugolini rifiutò, e non foss’altro che per quello, è consegnato alla leggenda dei grandi presidenti viola. Antonio rimase qui, in una città che lo adorava come mai nessun altro prima e dopo, e in una squadra di cui in quel momento era quasi l’unico valore tecnico. In quegli anni, si andava allo stadio per vedere le sue giocate, più che un gioco di squadra che praticamente non esisteva.
Eppure questa Fiorentina così derelitta riuscì a prendersi ancora qualche soddisfazione, come quando il 6 gennaio 1980 mise sotto di nuovo lo squadrone bianconero per 2-1, con due reti spettacolari di Sacchetti e Tendi da fuori area. Dopo anni di vacche magrissime, il nuovo decennio sembrava finalmente aprirsi sotto auspici decisamente migliori.
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