10 febbraio 2006 Stadio Olimpico di Torino
Si può. Organizzare un evento sportivo internazionale come una Olimpiade e non soccombere sotto i debiti, gli sprechi, le corruzioni grandi e piccole. Nel 1999, quando ottenne la nomination ad ospitare i Giochi Invernali del 2006, l’Italia era ancora sotto shock per l’eredità pesante – economicamente parlando, ma non solo – di Italia 90. Neanche a metà del percorso di autotassazione necessario ad ammortizzare le ingenti voci di bilancio passive, con una serie di cattedrali nel deserto ed infrastrutture non terminate o inservibili da far paura.
Il mondiale italiano del 90 è rimasto come paradigma di tutto ciò che non si deve fare organizzando una simile kermesse sportiva. I precedenti di Cortina 1956 e di Roma 1960 erano così lontani da raffigurare e riferirsi a un altro mondo, un’altra vita. Torino 2006 è rimasta invece come il paradigma di tutto ciò che si può e si deve fare, per continuare a dare vita al sogno olimpico (e a qualunque sogno di segno positivo) nella nostra società contemporanea diventata così complessa.
Con 3, 5 miliardi di Euro di spesa complessiva, la Città di Torino dotò prima le Olimpiadi e poi se stessa ed il proprio circondario alpino di strutture moderne, dallo Stadio Comunale restaurato come Stadio Olimpico al Palasport, al Palazzo del Ghiaccio in cui ebbero sede le prove indoor dal 10 al 19 febbraio 2006. Fino all’ammodernamento di tutti gli impianti delle località sciistiche circostanti, come Pragelato, Sauze d’Oulz, Pinerolo, Torre Pellice, Sestriere, Bardonecchia e Cesana di Susa. Con la ciliegina sulla torta del primo tratto della metropolitana cittadina che il capoluogo piemontese aspettava da almeno settant’anni.
Torino – e dietro di lei tutta la nazione italiana ancora non devastata dalla successiva crisi epocale – riuscì a dimostrare che il modello Lillehammer (Giochi da organizzare in centri abitati di non più di 20.000 abitanti) era superato, e che le grandi città se oculatamente amministrate potevano riuscire in inverno là dove riuscivano in estate, se prossime a località sciistiche di prestigio. Dopo Torino, sarebbero venute Vancouver, poi Sochi, in attesa del turno di Pechino. Il mondo cambia, e ha cominciato a farlo – sulla neve – proprio a Torino, che organizzò nel 2006 a detta del C.I.O. i Giochi Invernali migliori di sempre.
La XX^ Olimpiade d’Inverno fu aperta da una tedofora d’eccezione, la leggendaria Stefania Belmondo. Il braciere da lei acceso, disegnato appositamente da Pininfarina era il più alto della storia olimpica, con i suoi 57 metri.
Per la prima volta, anche la Bandiera Olimpica fece il suo ingresso nello Stadio portata solo da donne, dai nomi eccellenti come Sophia Loren, Isabel Allende, Susan Sarandon, Nawal El Moutawakel (la prima donna musulmana medaglia d’oro in Atletica), Wangari Maathai (la Premio Nobel ambientalista keniota poi scomparsa nel 2011), Manuela Di Centa, Maria de Lourdes Mutola (la mezzofondista mozambicana medaglia d’oro a Sidney) e Somaly Mam (l’avvocatessa cambogiana impegnata contro il turismo sessuale e la tratta delle bambine nel sud-est asiatico).
A Torino erano presenti 80 paesi, praticamente tutti quelli che avevano Federazioni Sportive Invernali affiliate ai rispettivi Comitati Olimpici nazionali. Non fu l’unico record extrasportivo dell’Olimpiade 2006. Per effetto della seria ed intensa lotta intrapresa in quegli anni dal C.I.O. contro il doping, il frutto raccolto in Piemonte fu che di tutti i controlli effettuati dopo le gare un solo caso risultò positivo: quello della russa Olga Medvedceva medaglia d’argento (poi revocata) nel Biathlon.
A fronte di tanto splendore organizzativo, non potevano mancare i risultati sportivi di prestigio. Per la squadra di casa, furono Olimpiadi epiche, nel bene e nel male. Armin Zoeggler continuò la sua striscia leggendaria, aggiungendo al bronzo di Lillehammer, all’argento di Nagano ed all’oro di Salt Lake City quello vinto a Cesana Pariol in Val di Susa. Enrico Fabris vinse l’oro nel pattinaggio di velocità sulla distanza dei 1.500 metri e si ripeté con un bronzo nei 5.000, per poi dare un contributo decisivo all’oro nell’inseguimento a squadre (introdotto nel programma per la prima volta) a fianco di Matteo Anesi, Stefano Donagrandi e Ippolito Sanfratello.
Giorgio Di Centa, Fulvio Valbusa, Pietro Piller Cottrer e Cristian Zorzi riportarono lo sci di fondo azzurro indietro di dodici anni, ripetendo l’impresa di Lillehammer di Fauner & soci. Ma per il fratello di Manuela, c’era in attesa un altro appuntamento con la storia. Le ultime Olimpiadi, ad Atene due anni prima, si erano chiuse con un trionfo italiano proprio nell’ultima gara, la più prestigiosa del programma, tanto più perché quella volta si correva sul tracciato originario di Filippide. Stefano Baldini era entrato nella storia arrivando primo ad Atene. Nei Giochi Invernali, la 50 km di Fondo a tecnica libera aveva lo stesso prestigio e la stessa collocazione della Maratona in quelli estivi. E Giorgio Di Centa non volle essere da meno di Baldini, arrivando primo sul traguardo di Pragelato per ritrovarsi praticamente tra le braccia della sorella Manuela, a cui il Comitato organizzatore aveva affidato quel giorno l’onore e l’onere della premiazione.
A contraltare di tanta gioia, ci fu la tristezza di Carolina Kostner, predestinata allora promessa del nostro pattinaggio artistico che era attesa al trionfo sul podio del Palavela di Torino, ed alla quale invece l’emozione giocò un brutto scherzo relegandola soltanto al nono posto. Altrettanto successe a Barbara Fusar Poli e Maurizio Margaglio, il cui sogno dorato si infranse su una caduta rovinosa nell’ultimo esercizio che trasformò una sicura medaglia in un sesto posto. Anche la coppia cinese Han e Dao Zhang ebbe la stessa sorte, rialzandosi però con una determinazione ed una rabbia agonistica tali che le consentì di recuperare fino al secondo posto.
Furono le Olimpiadi in cui il Curling ebbe la sua definitiva consacrazione tra le discipline olimpiche. L’austriaco Benjamin Raich ripeté l’accoppiata Slalom Gigante – Speciale riuscita fino a quel momento soltanto ad Ingemar Stenmark ed Alberto Tomba. Kietil Andre Aamodt, vincendo il Supergigante, mise in fila il quarto oro olimpico quattordici anni dopo il primo di Albertville e quattro dopo i due di Salt Lake City, in SuperG e Combinata. La bolzanina Gerda Weissensteiger diventò la prima donna a vincere medaglie in due discipline diverse, bronzo nel Bob a 2 con Jennifer Isacco dodici anni dopo l’oro in slittino di Lillehammer.
Furono le Olimpiadi del passo d’addio del maestro Luciano Pavarotti, che impreziosì con la sua voce all’ultima esibizione pubblica la Cerimonia d’Apertura. Così come Andrea Bocelli, Elisa, Ricky Martin fecero altrettanto in quella di Chiusura, insieme alla canadese Avril Lavigne che rappresentò il paese che avrebbe raccolto la bandiera olimpica dall’Italia e da Torino. La bandiera dei Cinque Cerchi si arrotolava per essere dispiegata nuovamente a Vancouver nel 2010.
La nazione italiana, grazie a quella città che era stata una delle sue capitali storiche, aveva dato al mondo la misura di cosa si può fare quando tutte le energie sane di un paese vengono incanalate in un percorso positivo. Diversamente da quanto era successo per Italia 90, restavano alla popolazione ed al territorio strutture efficienti, conti da pagare non esorbitanti e soprattutto non destinati alle tasche sbagliate, ed un cumulo di sensazioni positive come viatico per il futuro quantomeno immediato.
Nessuno poteva immaginare che, in un ambito più generale, si trattava invece di un canto del cigno. Che da quell’esperienza non avrebbe tratto purtroppo nuovo impulso un boom economico come era successo a Roma nel 1960. Ma subito dopo avrebbe preso il via una crisi, nazionale e mondiale, da cui non siamo ancora venuti fuori. Il modello Torino comunque resta lì, in attesa di un mondo che sia capace di riprenderlo e rimetterlo in pratica.
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