E adesso? Una modesta proposta, invece di andare a giocare quella oscena carnevalata in Qatar l’anno prossimo, risolviamo la questione dell’assegnazione del titolo mondiale 2022 in una partita secca da disputarsi tra l’Argentina vincitrice della Copa America e l’Italia vincitrice della Coppa Europa. Magari in campo neutro, alle Canarie o nei Caraibi. Eviteremmo così di confondere il pallone con i cammelli, di dare soldi nostri sudati a chi non ne ha bisogno (ed oltretutto magari poi li usa per farci del male, in qualche modo) e magari di assistere nelle nostre città a qualche carosello islamico più simile ai tafferugli di Wembley post partita che ai gioiosi festeggiamenti italiani per il titolo conquistato.
D’altra parte, siamo o non siamo infedeli? E allora godiamoci la nostra infedeltà, senza inchinarsi più a nessuno. Almeno con gli argentini ci intendiamo in qualche modo. Hanno il vizio di scambiare ogni tanto la loro mano per quella de Diòs, ma al massimo ci aggiustano la traiettoria di un pallone, non la usano per tirare giù qualche chiesa, o magari nella fattispecie qualche maxischermo.
Wembley. Per generazioni l’abbiamo considerato tutti il tempio sacro del calcio. Il gioco è nato lì dentro, ed il suo verbo da lì è stato diffuso in tutto il mondo. Sulla confezione con cui veniva spedito ai quattro angoli della terra c’era scritto, sotto il richiamo al copyright inglese: mi raccomando, il fair play.
Per generazioni abbiamo dato retta, pur con qualche difficoltà, a questa raccomandazione. Abbiamo sofferto quasi di un complesso di inferiorità nei confronti degli eterni maestri. La loro different class, quel verso di Kipling sui due impostori, vittoria e sconfitta, trascritto sull’accesso al campo centrale di Wimbledon e per ogni dove a Londra e dintorni, ci costringeva a vergognarci almeno interiormente delle nostre miserie domenicali (e infrasettimanali). Le scene a cui assistevamo nei nostri stadi avevano poco a che spartire con lo spirito del calcio distillato dai colleges di Oltremanica e infuso nelle borghesie colte e tra i popolani più evoluti del resto del continente e del mondo.
Poi arrivarono gli hooligans, e qualche dubbio ce lo fecero venire. Il calcio era diventato uno sport di massa, e le masse, si sa, con il fair play se la dicono sempre poco o nulla. Certi atteggiamenti upper class non avevano e non hanno più appeal per una lower class, un ceto medio-basso peraltro sempre più numeroso, che fa del calcio una ragione di vita. L’unica, non avendone altre che gli diano un minimo di soddisfazione. Ci pensò la Thatcher a circoscrivere prima ed archiviare poi il fenomeno. L’Inghilterra non ritornò al suo passato aristocratico imperiale, ma divenne un paese moderno e sviluppato, con gli stadi senza protezioni ed i posti numerati a farci di nuovo invidia ed a mortificarci. I bobbies, i celebri poliziotti inglesi disarmati, ormai allo stadio c’erano per figura, come i Beefeaters di guardia alla Torre di Londra e le Guardie della Regina a Buckingham Palace.
Capirete dunque l’amara sorpresa che abbiamo avuto nell’assistere al crollo repentino, verticale, irrimediabile forse, di un mito intergenerazionale e dell’immagine di un paese che associavamo alla nozione stessa di civiltà. Le scene dei tifosi italiani picchiati da hooligans redivivi, anche se invecchiati ed appesantiti da pance da birraio e resi ancora più osceni a vedersi da colli taurini con sopra tatuati slogan impresentabili, ce le aspettiamo di consueto all’uscita dell’Olimpico di Roma o di qualche stadio della nostra provincia dove gli animi si surriscaldano facilmente. Vedere Wembley ridotta così, vedere l’Inghilterra ridotta così, fa male. Loro soffrono per aver perso all’ultimo rigore un trofeo che aspettavano da 55 anni e che sentivano ormai loro. Ma a cosa serve il fair play, se non a gestire da persone civili una simile sofferenza? Luis Enrique ha incantato il mondo rendendo l’onore delle armi ad un’Italia che la sua Spagna aveva messo assai in difficoltà. Nuestro querido Luis è una persona che nella sua vita, se proprio vogliamo dirla tutta, ha affrontato quanto di peggio possa accadere ad un uomo. Fair play in spagnolo si dice juego limpio. Forse sarà il caso di ribattezzare il concetto, visto che come testimonial il CT della Roja ha dimostrato di valere assai più del principino William.
Sissignore, il figlio di Diana oltraggia tutto e tutti, dalla memoria di sua madre, al suo stesso paese e vivaddio anche a sua nonna, Sua maestà la Regina, che nel corso della sua lunga vita ha fatto dello stile impeccabile sempre e comunque il paradigma del suo mandato regale. Nel 1996 Elisabetta scese in campo senza battere ciglio a premiare i tedeschi vincitori dell’Europeo che doveva essere inglese, il ritorno a casa del calcio. Eppure, nel corso della sua vita già allora abbastanza lunga, la sovrana poteva dire di aver visto i tedeschi comportarsi tutto al contrario del fair play, mezzo secolo prima. Di aver scansato per miracolo le loro bombe mentre guidava l’ambulanza del servizio civile con cui, al pari di tanti altri comuni cittadini, prestava soccorso alle vittime del blitz nazista su Londra. Scese in campo a premiare i nipotini degli autori di quell’abominio senza battere un ciglio, come detto. Come del resto ha sempre fatto, dopo quel 1966 in cui per l’ultima volta ebbe il piacere di consegnare la coppa in palio ad un suo suddito.
Il principino William prende la consorte Kate ed il figlioletto Henry e si dilegua, lasciando il compito di consegnare la coppa agli italiani ad un funzionario di corte, o dell’UEFA. Chiellini deve quasi andare a prendersela da solo, la cerimonia più disarmante e offensiva della storia del calcio, dopo quella di Berlino. Ma almeno a Berlino presiedeva un cialtrone, Sepp Blatter, non a caso poi indagato ed estromesso per ogni genere di malversazioni assieme al suo compare Michel Platini (proprio lui, l’uomo che l’anno prossimo ci manda tutti a giocare in mezzo ai cammelli). Qui è Sua Altezza Reale a comportarsi come un maneggione dell’UEFA qualsiasi. Se questo è il comportamento della classe superiore, vogliamo poi meravigliarci se il popolino si scatena fuori dello stadio menando gli italiani?
Di William e del destino degli Windsor ci importa il giusto, diciamocelo. Ha fatto effetto semmai vedere Wembley senza la Regina. Bisognerà abituarsi, Sua Maestà ha avuto ben altre pubbliche celebrazioni a cui attendere quest’anno. Dieu et mon droit, come recita il motto della sua casa, stanno forse scandendo gli ultimi momenti di una lunga e gloriosa esistenza. Alla quale forse non è detto che sopravvivano né la royal family né la Britannia Felix la cui immagine ed il cui prestigio essa aveva tanto pazientemente e tenacemente ricostruito.
Siccome siamo sportivi, e ci piace esserlo anche con chi non lo è – chi ci chiamava camerieri all’epoca in cui Fabio Capello e Gianfranco Zola sparecchiavano questo stesso Wembley presentando il conto ai signori del posto; chi adesso si strappa la medaglia dal collo perché è d’argento, l’oro ce l’hanno i maledetti italiani e solo Gareth Southgate il CT ed Harry Kane il capitano si preoccupano di salvare almeno in parte l’onore nazionale se non le apparenze, stringendo la mano ai vincitori ed applaudendo quella parte del pubblico che ha tifato correttamente ed è rimasta seduta sugli spalti per la cerimonia finale; chi ha fischiato il nostro Inno, che non sarà solenne come il God save the Queen, ma che non a caso si chiama il Canto degli Italiani, perché richiama alla memoria tutte le lotte e le sofferenze del nostro popolo, che adesso riscuote un altro meritato premio avendo una volta di più stretto i denti e gettato il cuore oltre l’ostacolo -, vogliamo essere comprensivi verso la tristezza che traspare dagli occhi lucidi di Southgate, di Kane e di tutti gli inglesi, bambini, ragazzi, adulti, famiglie, che hanno correttamente tifato ed hanno sognato né più e né meno come noi. L’abbiamo avuta anche noi quella tristezza negli occhi, tante volte. L’abbiamo sbagliato anche noi quell’ultimo rigore tante volte, anche se un po’ meno di loro. Sappiamo cosa vuol dire stringere la mano ad un avversario che è stato più bravo di te, ma magari soltanto di poco, quel poco a cui ripenserai per molte notti, e che non avrai bene finché non ti sarà riuscito di colmarlo, come Matteo Berrettini per cui quelle poche palle fermatesi sul nastro della rete del campo centrale di Wimbledon avrebbero potuto fare una gran differenza, una coppa invece di un piatto. L’immortalità invece di un secondo posto che non viene annotato in nessun Albo d’Oro.
Sappiamo cosa vuol dire avere gli occhi lucidi, e non importa se a volte ce lo meritiamo anche. Siamo con chi, tra gli inglesi, ha mandato giù dignitosamente il groppo in gola, magari non ci ha stretto la mano ma nemmeno ha preteso di battercela sul viso, e già ha ripreso a sognare la prossima partita, il prossimo, torneo, la prossima vittoria. Gliela auguriamo di cuore, a loro, agli spagnoli, a chi stavolta si è dovuto inchinare ad un’Italia che sembrava più che mai morta e sepolta. E che invece ancora una volta ha trovato la linea del Piave su cui fermarsi, riorganizzarsi e contrattaccare.
A proposito. Restiamo sul pullman degli azzurri che quindici anni dopo li riporta di nuovo vincitori nel cuore di Roma, come antichi legionari di ritorno dalla provincia più estrema, la Britannia, dalla quale finora non avevamo mai riportato nessuna vittoria. Restiamoci, e come dopo Berlino festeggiamo, alla faccia di chi ci vuol male e di chi intenderebbe ancora romperci le scatole con gli assembramenti e le lettere dell’alfabeto greco.
Ma scendiamo, per favore, dal carro dei moralisti. E’ sempre bene ricordarsi che quando gli altri fanno qualcosa di male, spesso l’abbiamo già fatto anche noi. Ci ricordiamo di almeno due circostanze in cui abbiamo fischiato malamente l’inno di altri paesi nostri avversari in competizioni sportive. Nel 1990 a Roma l’inno argentino fu sepolto sotto una bordata di fischi che erano tutti diretti verso el pibe Maradona. Diego ci aveva messo del suo, provocando gli italiani in tutti i modi prima della semifinale Italia – Argentina a Napoli, e soprattutto mettendo dentro il rigore decisivo che mandava la sua seleccion alla finale di Roma e la squadra delle notti magiche a quella di consolazione a Bari (contro l’Inghilterra parimenti scottata dai rigori, guarda te le combinazioni ed i ricorsi storici!). Maradona rispose con un labiale, hijos de puta, immortalato in mondovisione. Non ci facemmo una bella figura, né noi né lui. Pace all’anima sua, ed anche alla nostra.
La seconda circostanza fu il match di ritorno a San Siro nel 2007 per le qualificazioni europee con la Francia. La civile, cosmopolita Milano fischiò la Marsigliese, e abbiamo detto tutto. Come sottolineò allora Italo Cucci, la Marsigliese non si fischia MAI. Se c’è bisogno di spiegare perché, significa che per qualcuno la Bastiglia è stata presa invano, ed il 14 luglio che domani si celebra in Francia ed in tutto il mondo occidentale è stato iscritto nei nostri calendari altrettanto invano.
Smaltita la sbornia dei festeggiamenti, sarà bene prendere da parte gli amici inglesi, offrire loro una pinta della loro birra impareggiabile o un calice del nostro vino unico al mondo, e fare pace dimenticando insieme le stronzate che o prima o dopo tutti abbiamo fatto.
Il calcio è stato definito il gioco del secolo. E’ stato finora sicuramente il gioco che negli ultimi due secoli ha saputo veicolare tutte le passioni popolari. Quelle buone ed anche, e soprattutto, quelle cattive.
La mattina del 12 luglio 1982 chi scrive ricorda bene di avere avuto gli occhi arrossati per la notte insonne, impiegando pertanto un po’ di tempo a mettere a fuoco l’immagine degli azzurri che scendevano dall’aereo che li riportava dalla Spagna, l’Air Force One di Sandro Pertini, passandosi lungo la scaletta dell’aereo la Coppa del Mondo.
Ci avessero detto che avremmo rivisto questa scena nel corso della mia vita, non so se ci avremmo creduto. Soltanto un mese fa, a parte Mancini, Vialli e pochi altri del loro staff, non ci credeva nessuno.
Per quanto, come abbiamo più volte scritto negli ultimi tempi, ci siamo sentiti spesso disamorati da questo nostro strano paese, non possiamo fare a meno di sentirci adesso la gola chiusa dal magone, pensando oltretutto che è anche il magone che hanno avuto in circostanze analoghe i nostri nonni ed i nostri genitori, e che è anche quello che sentiamo adesso, miracolosamente, nelle parole dei nostri figli.
Abbiamo un’altra modesta proposta: come cittadini di uno stato moderno e civile non siamo un granché, come calciatori e tifosi del calcio valiamo sicuramente molto di più. Spostiamo la nostra festa nazionale dal 2 giugno all’11 luglio. Avrà almeno un senso che siamo tutti in grado di capire.
E poi basta, veramente basta con questa storia di tifare contro la Nazionale. Firenze è italiana, talmente italiana da essere stata la capitale d’Italia prima di Roma. I fiorentini veri sono anche italiani, orgogliosamente italiani. l’Italia non sarà il paese più perfetto del mondo, ma è il nostro, ci piaccia o no. Come diceva Oriana Fallaci, guai a chi ci tocca il nostro paese e la nostra città. Possiamo criticarli soltanto noi.
Chi tifa contro la Nazionale non è fiorentino. E’ soltanto un cretino.
….non è una favola e dagli spogliatoi escono i ragazzi e siamo noi
Era bella questa canzone, cantata dalla giovane Gianna Nannini e dall’ancor giovane Edoardo Bennato, per le orecchie di un’Italia a quel tempo giovane anch’essa.
Ebbe una sola colpa: aver fatto da colonna sonora ad una storia finita male. Non siamo più riusciti a riascoltarla a mente libera. C’era sempre un retrogusto di tristezza che non ti permetteva di abbandonarti completamente alle parole ed alla musica.
Finalmente, trent’anni dopo, i ragazzi sono tornati. Sono usciti di nuovo da quegli spogliatoi. E le notti magiche stavolta sono arrivate fino in fondo, all’alba, al momento di svegliarsi e di rendersi conto che è tutto vero.
Trent’anni dopo, finalmente la possiamo ascoltare a tutto volume.
I ragazzi sono arrivati a casa. Con la Coppa.
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