Bloody sunday, la Domenica di Sangue. Il 30 gennaio del 1972 a Derry nell’Ulster i soldati britannici di stanza nella zona aprirono il fuoco sui civili irlandesi che stavano partecipando ad una manifestazione indipendentista, lasciandone al suolo esanimi tredici. Nessuno ha mai saputo il perché di quella strage, ma è certo che rimase nell’immaginario collettivo dei nordirlandesi come il più grave fatto di sangue – ed insieme il più grave torto subito dagli oppressori inglesi – dal tempo della Rivolta di Pasqua che aveva dato l’indipendenza alle contee del sud, all’Eire. L’I.R.A. promise la vendetta e la eseguì sette anni dopo, a Mullaghmore, facendo saltare in aria lo yacht di Lord Louis Mountbatten, cugino della Regina Elisabetta e zio del Principe di Galles Charles, oltre a 18 militari britannici di stanza nella vicina Warrenpoint. Il governo della Thatcher reagì a sua volta a questa vendetta inasprendo le condizioni dei prigionieri irlandesi a Long Kesh, che cessarono di essere considerati detenuti politici e vennero trattati alla stregua di delinquenti comuni.
La storia di Bobby Sands e degli uomini che, come moderni Bravehearts, si lasciarono morire di fame in carcere piuttosto che chinare il capo è nota. A quel tempo, Paul David Hewson soprannominato Bono Vox e in procinto di diventare famoso in tutto il mondo come leader della band irlandese denominata U2, era un ragazzo di appena vent’anni. Da circa dieci si portava il ricordo di quella Domenica di Sangue che come tutti i suoi connazionali aveva vissuto come una assurda escalation di un assurdo conflitto tra persone che dicevano di osservare gli insegnamenti dello stesso Cristo, anche se lo facevano secondo liturgie diverse.
Bono, figlio di madre protestante e padre cattolico, si sentiva la prova vivente che finalmente le due confessioni potevano convivere, perfino in Irlanda dove il tempo si era fermato – da quel punto di vista, ma non solo – all’età delle Guerre di Religione, al Millecinquecento. E siccome le armi sue e della sua banda erano la voce e gli strumenti musicali, promise a sua volta non vendetta ma giustizia componendo questa Sunday Bloody Sunday, brano di punta del terzo album di successo della band, dal titolo significativo: War.
La canzone fu presentata per la prima volta in concerto a Belfast, epicentro della guerra anglo-irlandese. Bono era incerto sull’accoglienza che avrebbe avuto. Non si trattava di una delle rebel song tradizionali nel repertorio musicale irlandese, spiegò, ma piuttosto della reazione incredula e scandalizzata di un giovane cresciuto in un ambiente familiare interconfessionale nella civile Repubblica d’Irlanda, di fronte all’odio e alla violenza fratricida tra concittadini e correligionari. «Si chiama Sunday Bloody Sunday, parla di noi, dell’Irlanda. Ma se non piacerà a voi, non la suoneremo mai più.»
Inutile dire che piacque così tanto che è diventata uno dei brani di apertura dei concerti degli U2. Da allora, la situazione nelle contee irlandesi del nord si è – azzardiamo – considerevolmente pacificata. E tuttavia non è venuta meno la suggestione del ritornello della canzone: «How long must we sing this song?» (Per quanto tempo dovremo cantare questa canzone?), ripreso anche nella canzone che chiude l’album War: 40 (tratta dal Salmo 40 di Davide della Bibbia).
Da canto contro la guerra civile irlandese (levato all’epoca con un certo coraggio, nella misura in cui degli irlandesi si scagliavano contro quei concittadini che, in patria e all’estero, giustificavano l’uso della lotta armata partigiana per ottenere l’unione dell’isola sotto un unico governo irlandese repubblicano, una cosa fino a pochissimi anni prima impensabile e rischiosissima) il brano è diventato un universale manifesto di rifiuto della violenza.
E come tale è il brano del giorno di oggi.
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