Cerimonia di consegna delle chiavi della città. Ormai si va avanti a forza di duplicati, perché le chiavi di Firenze ce le hanno in tanti, troppi. Anziché quel riconoscimento straordinario che dovrebbe essere (a fiorentini che si sono resi famosi nel mondo, o a personalità del mondo che hanno fatto qualcosa di significativo a Firenze e/o per Firenze), è diventata una ricorrente marchetta a beneficio di chi ha fatto qualcosa di significativo per la casta dominante e per il partito che la irreggimenta.
E così Dario Nardella, l’uomo che porta a casa poco o nulla (dallo stadio nuovo da realizzare su di una Mercafir che in qualche modo si deve volatilizzare, alle Olimpiadi da organizzare – sempre in qualche modo – tra le Cave di Maiano e la zona del Bardiccio, Dicomano, Rufina) ma che Firenze ha riconfermato entusiasta e plebiscitaria forse vedendolo a propria immagine e somiglianza, si inventa questo Richard Gere come una sorta di giusto tra i giusti e organizza a se stesso e a lui medesimo una passerella a buon mercato, al limite pagata dai soldi dei contribuenti.
Da una parte il venditore di Fontane di Trevi a rovescio, che all’americano di turno non appiccica più patacche ma se ne fa appiccicare. Del resto, Nardella è conterraneo di Totò, anche se in quanto a simpatia gli rende diverse lunghezze. L’occasione del resto è ghiotta per il PD: dare un altro schiaffo a Salvini rinfocolando l’enfasi buonista con cui fu celebrata la salita di Gere a bordo della Open Arms bloccata dal divieto di sbarco dell’allora Ministro dell’Interno. Se potessero, sempre per portare a casa qualcosa, Nardella e i suoi consegnerebbero le chiavi dell’universo al primo – come si dice a Firenze? – bischero di passaggio.
Dall’altra parte, ecco l’attore mediocre ma di grande appeal (chiedere soprattutto alle frequentatrici di sale cinematografiche, più che agli addetti ai lavori). Gere non è mai stato uno da Actor’s Studio, ha sempre vissuto di rendita su quel bell’aspetto di cui Madre Natura l’ha dotato. Ha da aggiungervi soltanto quell’unica espressione facciale che sfoggia sia che porti fuori Hachiko sia che combatta i cattivi cinesi (solo nei film, in Tibet ancora aspettano di vederlo in carne ed ossa) e quel sorrisetto da doddolone strafottente con cui si mostra consapevole di sé ai comuni mortali, soprattutto alle comuni mortali.
Per ritrovare un suo successo cinematografico bisogna risalire appunto ad Hachiko, e può ringraziare il cane con cui recitava. Ecco dunque la necessità di visibilità che solo la frequentazione di una causa umanitaria può dare. Il ruolo di testimonial non si nega a nessuno, e in genere rende più che lavorare anche a stipendio dorato come il suo. Come detto, del Tibet si è riempito spesso la bocca, ma lassù devono ancora vederlo, e non ci pare che il Dalai Lama abbia mai menzionato fratello Gere tra i benemeriti della sua causa.
Molto più facile venire a rompere le scatole nel Mediterraneo, ostacolando peraltro l’azione legale di un governo per lui straniero, come una Rackete qualsiasi. Basta arraffare due o tre pacchetti di riso al Wallmart dell’aeroporto e poi volare in Europa, salire sulla barca che accoglie tutti e farsi fotografare mentre mette in mano i pacchetti al più fotogenico dei migranti. Per la verità in quei paraggi e frangenti ci sarebbe stato anche il consorte di Melanie Griffith, all’anagrafe Banderas Antonio (un altro che ha una espressione sola, sa che reciti sia che spari boiate politicamente corrette), ma un americano a noi provinciali fa molto più effetto. E dunque chiavi in mano a Gere, e avanti verso la prosisma uscita di Nardella.
Quello di ieri a Palazzo Vecchio è stato l’incontro ed il reciproco omaggio tra due nullità. Soltanto che la prima è stata votata dal pubblico degli elettori che adesso ne pagano i conti pubblici, la seconda soltanto dal pubblico delle spettatrici per le quali il tempo si è fermato a quando l’american faceva il gigolò.
Lo fa ancora, solo che le marchette se le sceglie molto meglio.
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