Una delle tante leggi non scritte dello sport è che il più grande di tutti i tempi non esiste. Ogni epoca ed ogni sport hanno il loro più grande, a volte ne hanno addirittura due e danno vita a duelli epici. Coppi e Bartali, Borg e McEnroe, Senna e Prost, Messi e Cristiano Ronaldo. Si può stare in eterno a discutere – ed è il gioco preferito dagli appassionati – su chi sia il più forte. Ma tra epoche diverse non ha senso. I veri sportivi questo lo sanno. Girardengo e Pantani, Di Stefano e Maradona, Nuvolari e Schumacher, Laver e Sampras, Michael Jordan e Kobe Bryant.
Il più forte di tutti i tempi semplicemente non esiste. Non ha senso parlarne. Da un decennio all’altro, nello sport come nella vita in generale cambia tutto. Dalla qualità degli attrezzi usati all’alimentazione, alle tecniche di allenamento, alle condizioni della società in cui si nasce, si cresce, si diventa adulti e campioni. La vecchia racchetta di legno di Rod Laver sta a quella supertecnologica di Rafael Nadal come gli sci di Gustav Thoeni a quelli di Alberto Tomba. Come il pallone di Silvio Piola a quello di Johan Cruyff, per non parlare di quello di Zlatan Ibrahimovic. Come la moto di Giacomo Agostini sta a quella di Valentino Rossi. E a proposito di Valentino, se il Mazzola del Grande Torino si fosse nutrito come uno dei campioni di adesso e la sua carriera non fosse stata condizionata dalla guerra, dove sarebbe arrivato?
Forse sempre a Superga. Ma non è questo il punto, i paragoni epocali non reggono.
Anche se, ogni tanto, c’è qualcuno che sembra sfidare ogni logica terrena, ogni legge di natura. Roger Federer, parliamo di tennis per i pochi che ancora non lo sapessero, risorge da un declino che sembrava irreversibile e nell’anno di grazia 2017 si aggiudica nell’ordine gli Australian Open (sul concrete, il cemento velocissimo di Melbourne Park, che dagli anni ottanta ha sostituito l’erba del glorioso Kooyong), il Masters di Indian Wells (Contea di Riverside, California, sempre sul concrete) e quello di Miami, Florida, dove ha rinnovato l’ormai pluridecennale duello con un altro longevo, lo spagnolo Rafael Nadal, riuscendo a spuntarla dopo anni di sconfitte cocenti che sembravano definitive. Ma non per lui.
A 36 che suonano il prossimo 8 agosto, lo svizzero sta facendo un qualcosa per ritrovare l’equivalente di cui bisogna andare parecchio indietro. Aveva 39 anni Kenneth Robert Rosewall detto Ken (uno dei mostri sacri australiani dell’epoca d’oro assieme a Rod Laver, Lew Hoad, Roy Emerson, Tony Roche e tante scuse ai tanti non menzionati) quando riuscì a raggiungere la seconda finale di Wimbledon della sua carriera. Era il 1974, la precedente l’aveva giocata esattamente venti anni prima. Nel ’54 era stato fermato dal talento smisurato del ceco Jaroslav Drobny. Vent’anni dopo dovette arrendersi al giovane e già irresistibile yankee Jimmy Connors.
Si può essere più avanti di un Rosewall nel palmarés, ed anche nell’illusoria classifica comparata all-time? Si può. Con i successi di questa collezione inverno-primavera 2017, Federer ritorna al quarto posto del ranking, approfittando certo anche dell’usura che colpisce gli altri giganti della sua epoca, Andy Murray, Novak Djokovic, Juan Martin Del Potro e Rafa Nadal, che forse hanno chiesto troppo a se stessi e ai propri assetti psico-fisici bionici.
Ma non è tanto quello a sorprendere, quanto l’allungamento del ruolino di vittorie e trofei dello svizzero, che costringe Wikipedia e gli altri database a modificare i propri format per tenere conto di tutte le sue vittorie. Da quel 2001 in cui, a Wimbledon, ereditò direttamente lo scettro di numero 1 mondiale da Pete Sampras, Roger ha fatto una strada trionfale, poi a saliscendi, adesso di nuovo illuminata da quegli speciali riflettori che esaltano il cammino solo dei più grandi.
Fino al 2012 aveva fatto impallidire il ricordo dei suoi omologhi di altre epoche, giustificando iperboli e quella benedetta nomination al titolo fantasmagorico di più grande di sempre. 18 titoli di Grand Slam (uno degli otto che sono essere riusciti nell’impresa di aggiudicarsi il career one, i quattro titoli vinti ma non nella stessa stagione), 91 titoli complessivi a cui si aggiungono la medaglia d’oro olimpica di Pechino e quella d’argento di Londra, nonché la prima storica Coppa Davis vinta dal suo paese, la Svizzera.
Già, la Svizzera. Paese che associamo all’Emmenthal, alla cioccolata, alle banche. Paese che quando si cimenta nello sport seriamente tira fuori tuttavia dal cilindro imprese incredibili. Come la Coppa America di vela vinta nel 2003 e nel 2007 malgrado il fatto di essere un paese che non ha un solo metro di costa confinante con acqua salata.
La Svizzera. Non contenta di aver già prodotto la più giovane numero 1 della storia del tennis femminile, la slovacca naturalizzata Martina Hingis, fece il bis con Roger Federer poco tempo dopo. Roger è di Basel, Basilea, Svizzera tedesca. Era il 2001 quando andò per la prima volta in testa al ranking mondiale, la speciale classifica ATP (Association of Tennis professionals), in base alla quale ad ogni torneo vengono stabilite tra l’altro le teste di serie. Vi è rimasto per 302 settimane, di cui 237 consecutive. Uno dei suoi tanti record.
E adesso? L’appuntamento, crediamo, è a Wimbledon, il suo torneo prediletto, quello che gli ha dato il maggior numero di vittorie, e di gloria. Ogni volta che esce sul centre court, i suoi occhi vanno alla targa apposta subito fuori degli spogliatoi con l’elenco dei nomi dei vincitori. Il suo nome vi compare sette volte, al pari di quello di Sampras. Insieme, detengono il record. Roger ancora sogna la sua ottava volta, il record assoluto.
Intanto, ha annunciato dopo Miami di aver bisogno di una pausa di qualche settimana, e per questo sarà difficile che ritorni al numero 1 in un prossimo futuro. La pausa farà bene anche a tutti noi aficionados. La tentazione di considerarlo davvero il più forte di sempre si è fatta davvero insistente.
«Tutto è perduto se non è la mente a controllare ogni tuo movimento» (Ken Rosewall)
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