La resa delle Giubbe Rosse a George Washington
All’inizio di quel 1776 in cui il mondo sarebbe andato sottosopra (*) e le colonie nordamericane di Sua Maestà britannica avrebbero osato l’impensabile dichiarando la propria indipendenza, Thomas Paine era uno dei tanti europei senza arte né parte sbarcati sulle banchine del Nuovo Mondo in cerca di se stessi, prima ancora che di una nuova patria.
Paine era nato a Thetford, nella Contea di Norfolk in Inghilterra. Il suo paese si apprestava a concludere gloriosamente il secolo inglese, il diciottesimo durante il quale aveva fondato un impero che si estendeva sui cinque continenti e tale da far impallidire il ricordo di quello di Carlo V di Spagna, senza immaginare di essere sul punto di ricevere uno smacco proprio dalle tutto sommato allora meno prosperose (anche se più fedeli alla propria anima ed alla propria tradizione culturale) delle sue colonie: quelle nordamericane, costruite faticosamente strappando la terra ai Pellerossa a palmo a palmo, in concorrenza con francesi e spagnoli.
All’inizio degli anni 70 di quel secolo, l’Inghilterra era una potenza mondiale plurivittoriosa ed apparentemente senza avversari. Il suo figliol prodigo Tom Paine invece era uno che fino a quel momento non aveva combinato nulla, tra matrimoni e imprese fallite. Entrambi, la Madrepatria ed il figliol prodigo, erano destinati a trovare se stessi sulle banchine del porto di Boston e nelle stamperie di Philadelphia, dove stava maturando quella che il mondo avrebbe conosciuto come Rivoluzione Americana.
Quando Paine sbarcò in America, a Boston i patrioti del New England avevano già avuto il loro party a spese del te importato dalle Indie Orientali dalla Compagnia omonima e su cui Sua Maestà Giorgio III (dimentico di alcune lezioni impartite in un passato non troppo lontano dal suo popolo ai suoi predecessori) aveva imposto tasse vessatorie.
Il pensatore radicale del Norfolk trovò di colpo terreno fertile per le proprie idee, mentre i patrioti scivolavano inesorabilmente lungo la china che portava da una fedeltà sempre più critica ad una Madrepatria sempre più lontana e meno conciliante fino ad un salto nel vuoto totale quale la Dichiarazione di Indipendenza, la fine del giuramento di fedeltà alla propria corona che nessun popolo europeo aveva mai osato infrangere dai tempi della repubblica romana (finita anch’essa un 10 gennaio, quello del 49 a. C. in cui Giulio Cesare aveva varcato in armi il Rubicone).
Con una eccezione, proprio quella inglese, che adesso proprio agli inglesi si ritorceva contro. Nel 1215, i baroni normanni erano stati i primi capaci di imporre una carta dei diritti, una costituzione ai Re Plantageneti. Giovanni senza Terra, il fratello poco carismatico e poco amato dai sudditi di Riccardo Cuordileone, aveva dovuto concedere la Magna Charta che aveva fatto dell’Inghilterra la prima monarchia in qualche modo costituzionale della storia.
Nel 1649, i Puritani protestanti di Oliver Cromwell, in nome del Parlamento che il re aveva cercato di esautorare, avevano tagliato la testa al re Carlo I Stuart, che aveva malaccortamente tentato di restaurare il governo per diritto divino in un paese in cui da troppo tempo contava assai di più la volontà della nazione. La repubblica puritana era durata poco, ed i suoi eccessi avevano vaccinato il popolo inglese per gran tempo a venire, rendendolo convintamente monarchico. Ma 40 anni dopo, nel 1688, un’altra rivoluzione aveva stabilito una volta per tutte che il re delle isole britanniche regnava, sì, ma era il governo eletto dal popolo di quelle isole a governare. A comandare veramente. La Gloriosa Rivoluzione che portò Guglielmo d’Orange stadtholder d’Olanda sul trono della Gran Bretagna rimase come pietra miliare del liberalismo per tutti i popoli europei in lotta contro l’assolutismo regio. Rimase come archetipo, come un seme potente che un secolo dopo avrebbe dato i suoi frutti prima in America e poi in Francia.
A Boston, i rivoltosi che buttarono a mare il te inglese si rifacevano a quella Gloriosa Rivoluzione, a quella Magna Charta. No taxation without representation, niente tasse se non decise dai rappresentanti del popolo, riuniti nel Parlamento. Ma i coloni non erano rappresentati nel Parlamento di Londra, e quando le guerre contro francesi, spagnoli e indiani presentarono un conto economico esorbitante ad una popolazione sempre più vessata dalle tasse, quel vecchio principio a cui Giovanni Senza Terra aveva dovuto acconsentire a Runnymede più di 500 anni prima tornò ad incendiare il cuore e la mente di molti, al di là dell’Atlantico.
Il 10 gennaio 1776, quando le rotative della stamperia R. Bell di Third Street, Philadelphia buttarono fuori le prime copie di Common Sense, l’opuscolo scritto dall’oscuro immigrato che predicava la versione più radicale del liberalismo inglese – che l’Inghilterra stessa aveva dimenticato di attuare nei confronti dei suoi figliastri d’Oltremare -, i primi colpi della Rivoluzione Americana erano stati sparati da tempo, a Concord e a Lexington nel Massachussets, ed il Congresso Continentale che vedeva riunite le tredici colonie sempre lì, a Philadelphia, la città dell’amore fraterno momentaneamente messo da parte per l’inevitabile guerra, stava nominando il generale virginiano George Washington comandante dell’esercito coloniale che avrebbe affrontato le temibili (e fino ad allora invincibili) Giubbe Rosse di lord Cornwallis, mandate da Re Giorgio a domare in modo drastico i suoi lontani e riottosi sudditi.
L’opuscolo, a tenerlo in mano e a leggere il suo titolo apparentemente dimesso, sembrava poca cosa. Cadde invece sul terreno giusto al momento giusto. Infiammò i cuori dei Minutemen che se lo tennero a portata di mano al pari del moschetto in dotazione, e fece del suo autore un personaggio tra i più famosi della storia, non solo americana.
La Dichiarazione di Indipendenza approvata pochi mesi più tardi sarebbe stata scritta da intellettuali e pensatori raffinati e di rango come Benjamin Franklin e Thomas Jefferson, ma i patrioti del New England, della Virginia, e di tutte le altre Colonie intitolate a vecchi re e regine inglesi deceduti da tempo sarebbero andati a combattere sotto Washington con in testa le sue parole, essenziali e perfettamente comprensibili a tutti.
E soprattutto quelle, scritte con caratteri di fuoco, che spaccavano in due definitivamente la storia dell’umanità: «il governo, nella migliore ipotesi, non è che un male necessario; nella peggiore, un male intollerabile».
Tom Paine era un radicale estremo, per i suoi tempi. Le sue parole finirono per spaventare anche gli intellettuali che si erano rassegnati ad appoggiare la causa della ribellione alla Corona e della istituzione della Repubblica, pur paventando le conseguenze di una sollevazione popolare che dava spazio a pericolose utopie socialiste che già all’epoca cominciavano ad aggirarsi come spettri per l’Europa. Il suo attacco al diritto divino era totale, ogni corona reale, ducale, baronale, ogni dominio non traeva origine da alcuna investitura divina o da altre clausole soprannaturali di un ipotetico diritto naturale, ma piuttosto da un atto di pirateria e di sopraffazione compiuto a suo tempo dai capostipiti delle famiglie attualmente regnanti e da quelle loro vassalle. L’Inghilterra che si era ribellata all’oppressione dei conquistatori normanni con la Magna Charta l’aveva poi dimenticata al momento di concedere parità di diritti agli inglesi trapiantati in Nordamerica, o in qualunque altra loro colonia.
Tutto questo funzionò a meraviglia contro un Re dispotico come quel Giorgio III Hanover che si diceva fosse ispirato nella sua intransigenza addirittura da una qualche forma di pazzia, o contro aristocratici come Corwallis che pretendevano di trattare cittadini britannici così come i razziatori di Guglielmo il Conquistatore avevano trattato i Sassoni al loro sbarco ad Hastings nel 1066.
Cessò però di funzionare un attimo dopo la vittoria di Washington a Yorktown, nel 1781. Il veterano Tom Paine con le sue idee estreme di rivoluzione spinta fino alle sue radicali conseguenze ben presto divenne fastidioso al punto da essere costretto ad emigrare nuovamente. Il nuovo governo americano di George Washington e John Adams, desideroso di normalizzazione borghese, gli rese la vita difficile spingendolo ad emigrare in Francia, dove nel frattempo il popolo – sulla spinta delle notizie riportate dall’America dall’esercito di Lafayette mandato a dare una mano contro l’odiata Inghilterra – stava dando l’assalto alla Bastiglia. Ma i Giacobini alla lunga non lo trattarono meglio dei suoi compatrioti, perfino per loro Paine era troppo avanti, e solo la caduta di Robespierre lo salvò da un destino molto triste.
Malgrado i suoi scritti successivi a Common sense avessero tutti titoli sobri e apparentemente rassicuranti, come I Diritti dell’Uomo e L’Età della Ragione, perfino i più arrabbiati Giacobini si spaventarono di fronte alle sue posizioni politiche e religiose. Del governo, appunto, parlava come di un male che andava dal necessario all’intollerabile. Di re e nobili, ma anche dei loro magistrati e governanti, parlava come di usurpatori dei diritti naturali dei propri simili. Della religione parlava come di una mistificazione inutile a tutti, se non a coloro a cui dava potere: «la parola di Dio è la creazione che guardiamo, Dio stesso è verità morale e non mistero o oscurità. Nostro compito è compiere la giustizia, amare la misericordia e cercare di rendere felici i nostri simili».
Degli stati nazionali parlava come di inutili relitti del passato, ostacolatori di quel commercio che era l’unico inevitabile fattore di civilizzazione della razza umana. Inevitabile che presto o tardi qualunque stato si mostrasse restio ad accogliere con buona disposizione colui che si presentava soprattutto come un pericoloso agitatore.
Ma le sue parole, a rileggerle oggi, non destano altro che ammirazione. «La mia nazione è il mondo (…) e la mia religione è fare il bene.». Il Senso Comune, l’opuscolo che aveva venduto 100.000 copie in poche settimane diventando il primo best seller della storia americana, che era valso fama ma non ricchezza al suo autore (morto in miseria a New York nel 1809), rimane una pietra miliare del pensiero politico moderno.
(*) The world turned upside down era la marcia suonata dalle truppe di Washington a quelle di Cornwallis al momento del loro reimbarco per l’Inghilterra dopo la sconfitta decisiva di Yorktown.
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