Il soprannome glielo aveva dato Gianni Brera, il cantore di quell’epica parallela che noi bambini degli anni sessanta-settanta studiavamo a parte, oltre a quella scolastica ufficiale, nei ritagli di tempo lasciatici dallo scambio di figurine Panini. La sua, per inciso, valeva non so quanti doppioni.
Rombo di Tuono. Non era una iperbole come quelle che tanti sprecano adesso come allora per il calcio. Quando lui si avvicinava all’area avversaria, le difese e i portieri lo sentivano davvero quel rombo montante, subito prima che il sinistro più micidiale della storia del calcio italiano scagliasse il suo dardo letale.
Gianni Brera sapeva bene cosa vedeva e scriveva. Anche i sardi lo sapevano. Per loro era Giggirriva, pronunciato alla loro maniera e tutto d’un fiato. Quello lasciato appena dall’orgoglio di avere lì, sulla loro isola, l’attaccante più forte in assoluto della storia del calcio. Non ce ne voglia nessuno. Chi ha visto giocare Peppin Meazza ed i campioni del mondo di Vittorio Pozzo. Chi ha visto giocare Gerd Muller e da lui in poi tutti gli attaccanti che si sono avvicendati negli ultimi 50 anni. Chi ha visto giocare tutti i nostri bomber, uno più forte dell’alro (perché questo era il calcio italiano fino a pochi anni fa).
Rombo di Tuono, Giggirriva, è stato il più grande di tutti. Di sempre. Lo dicono i numeri (uno per tutti i 35 gol segnati in 42 presenze azzurre, record che nessuno eguaglierà mai). Lo dice la leggenda del calcio che ci è scorsa davanti agli occhi, da quando quel ragazzino di Leggiuno (VA) aveva cominciato a sfondare le porte degli stadi d’Italia prima, del mondo poi. Abbiamo avuto tanti grandi campioni. Uno solo che ha meritato di essere chiamato il più grande.
Segnava molto e rideva poco Gigi Riva. La vita gli aveva insegnato che c’é poco da ridere. Babbo perso a 9 anni, mamma a 16, una vita triste e disperata come quella di tanti bambini e ragazzi ai margini dell’Italia del boom economico, che a ripensarci bene non era per tutti.
Poi il calcio, quella sensazione provata subito a darlo ad un pallone, un calcio. Come in quella canzone di Massimo Ranieri. Quanta emozione. «Lo sentivo…..» Luigino Riva aveva trovato la sua strada. Lo sport più amato del mondo aveva trovato uno dei suoi interpreti più grandi.
Nel 1970 portò il Cagliari ad uno scudetto che non ammetteva repliche. La Juve offrì mezza Torino per portarlo in bianconero. Lui rispose: io sto bene qui. La Sardegna lo trattava come quel Re che non aveva più dal 1861. Lui ricambiava. Un calciatore, diceva, non può valere quello che la Juve offre per me. E io ho un debito con Cagliari e quest’isola.
Giggirriva restò rossoblu. Nel frattempo vestito di azzurro fece sognare anche tutto il resto d’Italia. A Roma nel 1968 segnò il primo dei due gol finali ad una Jugoslavia che ci aveva fatto tremare, facendoci credere di essere ancora destinati alla maledizione del dopoguerra, mai più vincitori.
Campioni d’Europa. Nel 1970 Messico e nuvole. Quelle che lui tolse dalla strada degli azzurri portandoli a quel 4-3 alla Germania Ovest che sarà sempre come l’ultimo canto dell’Iliade, non solo per noi che l’epica la studiavamo sull’album della Panini, ma – se capiscono qualcosa – per tutte le generazioni a venire.
In finale all’Azteca in campo c’era l’unico altro predestinato dalla leggenda di quell’epoca: Edson Arantes do Nascimiento, in arte Pelé. Vinse la Perla Nera, ma il Rombo di Tuono bianco lo fece tremare per più di un’ora. Giggirriva e Bonimba valevano da soli mezzo di quel Brasile, ed il Brasile lo sapeva.
Due infortuni, il più grave del 1971 e quello definitivo del 1976 lo tolsero di mezzo. Che giocassero da allora in poi i ragazzi, i comprimari, il Campione era a fine corsa, le sue ossa non erano più grate agli Dei.
Da allora è stato tante altre cose, ma soprattutto una bandiera. Per la Sardegna, per l’Italia. A Berlino ad instillare una invincibile hombria ad una Nazionale che peraltro ne aveva poco bisogno, quella di Lippi, c’era anche lui, come team manager. Poi lasciò il posto ad un altro predestinato, ad un’altra nostra bandiera, come lui costretto infine a centellinare i sorrisi alla vita: Gianluca Vialli.
Adesso si stanno abbracciando di nuovo, vencido y vencidor siempre con onor, c’é scritto sul muro dell’Azteca. Ce l’ha fatto scrivere il rombo di quel tuono che piegò le mani a Sepp Maier e abbracciò Rivera prima che collassasse dopo segnato il quarto di quei leggendari goals.
I Greci piangono ancora Achille, i Troiani Ettore. Noi abbiamo gli occhi umidi, perché il nostro eroe se n’è andato anche lui troppo presto, tradito da un cuore che credevamo invincibile.
Pare che il Sant’Elia di Cagliari cambierà presto nome, intitolato a Gigi Riva. Ci sembra il minimo, il cuore di ognuno di noi adesso ha un pezzettino sepolto lì.
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