«Buon viaggio papà, continua, come sempre hai fatto a camminare e pensare veloce…». Fu la figlia Germana a dare l’ultimo saluto ad Oliviero Beha sul suo account Twitter alla sterminata platea di lettori ed estimatori che per 40 e passa anni l’avevano seguito, nella sua battaglia per un calcio e un mondo migliore.
A 68 anni, Oliviero Beha se ne andò a causa di uno di quei mali che si definiscono incurabili, e che aveva avuto un decorso, a detta della famiglia, abbastanza fulminante. Uno degli ultimi esponenti di quella generazione di giornalisti convinta che, come diceva lui, «la libertà sia un lusso di pochi» e pertanto bisogna tenersela cara e propagandarla, quando la si possiede.
Era fiorentino Beha, e tifoso della Fiorentina. Era stato sportivo in gioventù (mezzofondista). Ma era soprattutto (soltanto, come avrebbe detto Montanelli) un giornalista. Aveva esordito sul leggendario Paese Sera, e poi subito sulle colonne della neonata Repubblica di Scalfari, di cui tra il 1975 ed il 1976 insieme a Mario Sconcerti aveva fondato la pagina sportiva dandole un taglio del tutto nuovo in un paese di sportivi del lunedi e di consumatori di panem et circenses. Lui era convinto che il calcio, lo sport non fossero altro che aspetti della vita – per quanto importanti – e come tali andassero trattati. Letterati prestati alle cronache sportive ce n’erano e ce n’erano stati, da Brera a Viola, a Zanetti a Tosatti, ma lui fu il primo a fare giornalismo d’inchiesta in ambito sportivo.
Nel 1982 l’Italia vinse il Mundial con i ragazzi di Bearzot. Un evento fondante, anzi rifondante. Il giornalista – tifoso Beha non si tirò indietro, allorché si convinse che la partita chiave di quel successo era stata Italia – Camerun, decisiva per superare un problematico girone di qualificazione. Secondo lui si era trattato di una combine. Fu allora che diventò giornalista scomodo, quasi maledetto per ogni establishment politico.
Negli stessi anni, passò dalla carta stampata alla televisione, unendo le forze con un altro mostro sacro come Andrea Barbato, da Va’ pensiero alla Gazzetta dello Spot. Poi la Radio, dove si improvvisò lo Zorro di quella trasmissione di servizio che gli dette la consacrazione definitiva. Una specie di ditelo ad Oliviero, un cahier de doleances di tutto ciò che non funzionava – e non funziona – in Italia, in tempi in cui non era ancora consentito lamentarsi in RAI. Si era agli sgoccioli della Prima Repubblica.
Come altri grandi giornalisti, la RAI che passava di mano secondo il Manuale Cencelli prima e il bipolarismo poi lo aveva sostanzialmente tollerato, relegandolo quando poteva alle nicchie ed alle tarde serate. Dal 2005, in epoca di centrodestra, aveva avviato cause interminabili per il recupero di spazi che lui riteneva più confacenti con il suo datore di lavoro, proseguite anche quando esso aveva cambiato colore.
Nel 2009 era stato cofondatore di quella band di ribelli famosi del giornalismo a nome Il Fatto Quotidiano. Nel 2012 la RAI l’aveva finalmente ridotto al pensionamento coatto. Aveva potuto almeno dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, lascia oltre 20 libri di successo, alcuni dei quali dedicati al lato oscuro del passatempo nazionale, il football, Da Mundialgate a Indagine sul Calcio a Il Calcio alla sbarra.
L’opera forse più sentita e quella che ha toccato maggiormente il cuore dei suoi concittadini è tuttavia quella dedicata al più grande sportivo di tutti i tempi nato sotto il suo stesso sole: Gino Bartali. Un cuore in fuga raccontava la sua epopea pubblica e privata, perché il bene si fa ma non si dice, perché il bene non è mai banale, al contrario del male.
Da tifoso viola, era passato a suo tempo all’opposizione dei nuovi signori della Firenze calcistica. I Della Valle non gli piacevano, a pelle. Ma soprattutto non gli piaceva quel loro modo eccessivamente economico di gestire quello che una volta era un gioco, poi uno sport, e infine era diventato un business. Per di più gestito secondo linee non sempre chiare e realmente produttive per i cosiddetti fruitori.
Era un’icona, come lo era stata Manuela Righini. E come lei era stato una delle poche garanzie di appassionati e tifosi. Un maestro che non lascia allievi, o ne lascia pochissimi, di fronte ad una platea sempre più disattenta o distratta da problemi ben più gravi.
Aveva il suo carattere non facile, come chi sa di avere molto da dire in quantità e qualità e non ricorre all’ipocrisia della falsa modestia. Ma se si aveva la pazienza di seguirlo nei percorsi che – orgogliosamente, da apripista consapevole – intraprendeva ogni giorno, fino all’ultimo, non deludeva mai.
La Tribuna Autorità viola lassù in cielo ha acquistato un nuovo abbonato. C’è da immaginare che Oliviero Beha non abbia fatto da allora sconti nemmeno lassù. A nessuno.
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