Ombre Rosse

Un lungo e difficile viaggio

Dice il professor Granara, aggregato di diritto costituzionale presso l’Università di Genova e patrocinatore di alcuni dei ricorsi contro le sospensioni di operatori sanitari adottate a seguito del D.L. 44/2021: questa è una battaglia che non si vince con la sentenza, ma con la pazienza.

L’aforisma è suggerito a suo dire dal clima particolarmente avverso che si respira al momento nelle istituzioni repubblicane nei confronti di coloro che non intenderebbero – sanitari o meno – piegarsi ad alcun obbligo vaccinale, al vaccino anti Covid in quanto tale. Tra queste istituzioni, lascia intendere il professore, andrebbe annoverata di fatto anche la magistratura, chiamata a decidere sia sui principi messi in gioco dall’azione governativa (e parlamentare) sia sulle situazioni concrete di chi, da aprile ad oggi, si è visto più o meno illegittimamente privato di posto di lavoro e stipendio, dopo aver respinto la chiamata al vaccino fino alla fatidica terza PEC.

Ci eravamo illusi che bastasse mettere da parte un Palamara per riavere d’incanto una magistratura moderna, cosciente ed efficiente. Non è così, e l’attualità l’ha dimostrato subito. I giudici si stanno in diversi casi mostrando partecipi del pregiudizio anti NO VAX in base al quale in prima istanza hanno emesso sentenze sfavorevoli ai lavoratori, condannandoli a volte perfino al pagamento delle spese processuali.

Senza voler chiamare in causa scenari complottisti o di massonerie deviate, va detto che di certo – come altre volte – la magistratura in forza al nostro paese ed alle nostre istituzioni non sembra brillare per attenzione nei confronti dei cittadini che le chiedono coraggio insieme al rispetto della Costituzione, attenendosi piuttosto ad un formalismo che finisce per ricondurla nella casta complessiva che vanifica la separazione dei poteri statali tracciata da Montesquieu e fa della nostra democrazia repubblicana un oggetto vintage.

In questo contesto ambientale, difficile dar torto a chi come il prof. Granara adegua in tal senso tempi e modi della propria azione forense, se non per un paio di questioni: il cambio di strategia processuale si concorda semmai con i clienti, non si attua a loro sostanziale insaputa, per quanto valide e condivisibili possano essere le motivazioni che lo inducono. Da ciò deriva anche la questione generale a proposito della cosiddetta etica professionale, e qui viene in causa tutta la categoria.

Affermare, come ci risulta che stiano facendo in questi giorni alcuni studi legali interpellati da sospesi intenzionati a ricorrere, che «non possono assumere il patrocinio per non violare l’etica professionale» e – sottinteso neanche tanto velato – per non incorrere in una cattiva pubblicità presso i magistrati giudicanti, a parere di chi scrive contribuisce non all’amministrazione corretta della giustizia, ma piuttosto all’amministrazione diffusa dell’ingiustizia, dell’arbitrio, del disastro sociale oltre che giuridico.

Dei tre poteri descritti da Montesquieu sono sufficienti i primi due, governo e parlamento, a perseguire simili efferati obbiettivi. Dal terzo, la giustizia, ci aspettavamo qualcosa che come al solito non avremo: una legge equilibrata e coerente, nella forma e nella sostanza, oltre che uguale per tutti come sta scritto negli edifici adibiti alla sua amministrazione e difesa.

E invece, da un lato magistrati preoccupati quasi esclusivamente delle proprie carriere ed attenti ai propri pregiudizi, dall’altro avvocati troppo propensi ad assumere soltanto le cause che sanno di poter vincere facilmente, non quelle giuste se comportano un rischio, un’alea giudiziaria che potrebbe rubricarli dalla parte dei perdenti.

In questo contesto ambientale, dicevamo, l’aforisma di Granara assume tuttavia una indubbia suggestione. Ha senso andare in tribunale a rischiare probabilmente di perdere? Ritrovandosi quindi a subire la beffa dopo il danno, con la conferma del mancato stipendio e la condanna a dover pagare per soprammercato anche le spese processuali (mai capito alla copertura di quale costo reale corrispondano e siano imputabili, ma tant’é…..).

Ha senso magari se si punta sulla vittoria del principio, che come dice Granara prima o poi dovrà tornare a prevalere sulla contingenza e sulla prepotenza di chi esercita il potere ed il condizionamento sociale. Ne ha meno se si pone l’attenzione, come molti dei sospesi sono costretti oggettivamente a fare, sulle necessità immediate di sopravvivenza: a figli piccoli da crescere e ad un mutuo da pagare è difficile aggiungere anche le spese, spesso non modiche, dell’avvocato. Figurarsi poi quelle del tribunale.

E allora, che fare? Se la via giudiziaria è preclusa o allontanata dal novero delle possibilità concrete, non c’è dubbio che tenere duro in ogni modo legalmente possibile resta una priorità. Se si vuole, una strada obbligata senza peraltro alternative.

Il DL 44/20201 si fonda sul presupposto dello stato di emergenza, che il governo ha dichiarato due anni fa e che per effetto dell’ultima proroga dovrebbe avere scadenza definitiva il 31 dicembre prossimo, essendo ormai l’emergenza reale Covid agli sgoccioli. Prorogarlo ulteriormente creerebbe un vuoto giuridico (un vulnus, come dicono i latinisti e coloro che amano il diritto scritto in forma incomprensibile ai più) difficilmente giustificabile anche con gli escamotages costituzionali a cui è finora ricorsa la nostra classe politica e burocratica fino ad oggi.

Se dal 1° gennaio 2022 l’emergenza finirà e torneremo a vivere in uno stato di diritto, sarà pressoché impossibile la riproposizione di provvedimenti come il DL 44 che stabilisce l’obbligo vaccinale per i sanitari o gli altri emanati successivamente che lo inducono surrettiziamente per altre categorie sotto forma di obbligo di green pass da esibire anche solo per respirare.

Si tratta quindi di arrivare, utilizzando ogni mezzo legalmente utilizzabile (ce ne sono, offerti peraltro dalla stessa normativa scritta spesso con i piedi ed in spregio di norme di rango superiore come la Costituzione ed i regolamenti europei), a questa scadenza posta tra tre mesi. Facile a dirsi per chi ha qualche salvaguardia in più e magari anche qualche soldo salvato da parte. Più difficile per chi si è trovato sbattuto fuori, spesso anche villanamente, dal suo reparto, magari dopo decenni di onorata e appassionata professione.

Ma, ripetiamo, a meno di un colpo di stato sudamericano, il parlamento della vergogna dal 1° gennaio dovrebbe restituire a tutti il rispettivo posto di lavoro, oltre che la libertà regalataci dai Padri Costituenti (che venendo dal fascismo sapevano bene cosa stavano scrivendo in quei 138 articoli, siamo noi che dopo ce ne siamo dimenticati).

Arrivare in qualche modo ad allora è un traguardo esistenziale per ognuno di noi, ed un traguardo morale, civile, sociale per tutta la nazione, che un governo di avventurieri vorrebbe continuare a far distinguere tra tutte le altre cosiddette civili imponendo la vaccinazione coatta (ed ingiustificata da alcunché di scientifico e di giuridico) e certificandola con una carta verde che ricorda – vorremmo dire: stupidamente – molto da vicino una analoga imposta agli italiani una ottantina di anni fa.

Può essere una occasione di crescita per tutti, individui e società, cittadini e nazione. In ogni caso, non c’è altro che lottare, con calma ed equilibrio, ma anche con determinazione assoluta. Altra alternativa non c’é. Come popolo, siamo stati spesso dei mezzosangue: metà cani, metà lupi. I primi confidano troppo nell’uomo e finiscono spesso per riceverne la bastonate. I secondi non hanno paura dell’uomo, né nutrono per esso alcun altro sentimento. Hanno a cuore soltanto la propria sopravvivenza, quella dei cuccioli che hanno messo al mondo e quella del branco dentro cui si muovono. Basta che fissino chi incontrano negli occhi, con gli occhi del lupo, e scoprano i denti. In genere qualunque malintenzionato nei loro confronti cambia subito strada.

Dobbiamo smetterla, come raccontava la favola di un celebre cartone animato, di ascoltare la metà canina che è in noi e far sì che riaffiori quella del lupo. Il viaggio che abbiamo davanti sarà lungo, difficile e senza alternative. Un cane non può farcela.

Ma un lupo forse sì.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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