Luglio è il mese in cui finiscono i Mondiali di Calcio. Ci sono poche costanti nella nostra vita, ma questa lo è. Le Olimpiadi possono slittare avanti e indietro nel calendario a seconda del luogo dove si svolgono e del relativo clima, ma i Mondiali cascano sempre lì, tra la prima decade di giugno e la prima di luglio. E’ sempre stato così o quasi, nel dopoguerra, e per questo magari assegnare la prossima edizione del 2022 al Qatar non è stata un’idea felice, e potrebbe portare alla prima deroga.
Abbiamo già celebrato il 9 e l’11, due giorni di luglio nei quali rispettivamente nel 2006 e nel 1982 l’Italia si consacrò campione del mondo. Tutti ricordano quei due giorni, dov’erano e cosa facevano, che canzoni cantavano e fino a che ora dell’alba del giorno dopo la finale le cantarono. L’Italia nel dopoguerra sarebbe andata in finale altre due volte, un 21 giugno, quello del 1970 si arrese al Brasile di Pelé, ed un 17 luglio, quello del 1994 si arrese ai rigori al Brasile di Romario. La prima volta si era a Città del Messico, e il clima aveva consigliato una leggera anticipazione delle date. La seconda volta si era a Pasadena, California, e la saggia decisione di 24 anni prima non fu replicata. Il caldo atroce che incombeva sul Rose Bowl condizionò una partita che nessuno dei giocatori riuscì a sbloccare e che alla fine fu decisa soltanto dal rigore calciato alle stelle da colui che era stato la stella di quel Mondiale, Roberto Baggio.
La regola di luglio era valsa anche nell’edizione precedente, quella del 1990, dell’estate italiana e delle noti magiche. L’ultima delle quali era prevista da calendario per l’8 di luglio, ma l’Italia padrona di casa e favorita arrivò fino al 3, e lì si fermo.
Italia 90. Il nostro paese aveva fortemente voluto quell’edizione del massimo torneo planetario di calcio. Intanto era il secondo paese dopo il Messico (1970 e 1986) che aveva l’onore di replicarne l’organizzazione dopo la prima volta nel 1934, e di dimostrare che quello che aveva saputo fare il regime fascista la repubblica democratica avrebbe saputo rifarlo, anche meglio. Era anche l’occasione per ammodernare strutture che mediamente risalivano proprio a quegli anni trenta in cui il fascismo aveva celebrato se stesso sponsorizzando lo sport a tutti i livelli. Era infine l’occasione di portare a quattro il numero delle stelle che sulla maglia azzurra della Nazionale indicavano il numero dei mondiali vinti, soltanto otto anni dopo il terzo conquistato in Spagna da Enzo Bearzot e compagni. Una occasione che sembrava impossibile perdere, perché la Nazionale di Azeglio Vicini giocava veramente bene, sembrava davvero la migliore, e in Roberto Baggio e Totò Schillaci aveva trovato strada facendo due armi letali.
Andò come tutti purtroppo ricordano. A Napoli, il 3 luglio, per la semifinale contro l’Argentina la città si spaccò in due, combattuta tra una fede nazionale che rifletteva le difficoltà storiche di rapporto connesse alla questione meridionale ed una cittadina, di campanile come si diceva allora, che si era catalizzata attorno alla figura di Diego Maradona, il fuoriclasse che aveva finalmente portato a Napoli lo scudetto dopo decenni di tentativi andati a vuoto.
Illuse Schillaci, deluse Zenga che uscì malamente su Caniggia. Ai rigori sbagliarono Aldo Serena e Roberto Donadoni, e la notte magica divenne una notte da incubo. In finale all’Olimpico di Roma ci andò l’Argentina fischiatissima di un Maradona a cui il pubblico italiano non perdonò l’arroganza e la campagna anti-italiana tentata nei confronti dei napoletani alla vigilia della semifinale. Una squadra brutta ma tosta, al pari della Germania allenata da Franz Beckenbauer e che per la prima volta dal dopoguerra si presentava senza più quell’Ovest o Est a specificare da quale parte del Muro (appena caduto) proveniva. Germania, e basta. L’arbitro le concesse un rigore generoso e Andreas Brehme raggiunse Gerd Muller e Fritz Walter tra gli eroi del Walhalla pallonaro tedesco. Lungi dall’allungare a quattro stelle lasciandosi dietro lo scialbo Brasile di Dunga, fummo raggiunti dalla Germania a tre. La notte dell’8 luglio 1990 per i tedeschi Roma tornò ad essere città aperta.
All’Italia rimasero tanti rimpianti, che offuscarono il ricordo di un mese per altri versi stupendo, magico come le notti in cui l’Italia era riuscita a tenere fede al pronostico. Un mese vissuto cantando quel motivetto scritto da Tim Whitlock per Giorgio Moroder che era diventato fin dalla primavera un vero e proprio tormentone. Moroder aveva già scritto Reach Out, l’inno delle Olimpiadi di Los Angeles 1984, e Koreana, l’inno delle Olimpiadi di Seoul 1988. Un bell’inno soprattutto quest’ultimo, molto suggestivo. Il suo Project mise a segno un altro colpo con To be number one, ma soprattutto con la versione nostrana riscritta e cantata da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato.
Peccato non aver vinto proprio la volta che si giocava in casa ed avevamo la canzone più bella, oltre che la squadra più forte. Ma le notti magiche non si dimenticano. Non è una favola e dagli spogliatoi…. escono i ragazzi…..e siamo noi.
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