«Una catastrofe inimmaginabile. Cadaveri dappertutto, ma molti non avranno mai sepoltura. Il disastro è avvenuto in pochi minuti, una valanga liquida è scesa fulminea dalla diga per la frana di un intero costone del monte Toc. Decine di milioni di metri cubi d’acqua e fango caduti a valle in una ciclopica ondata. Scomparsi sette stabilimenti industriali, di cui uno della cartiera di Verona con novanta operai. Trovate finora quattrocento salme».
Scriveva così il Corriere della Sera l’11 ottobre 1963, due giorni dopo il più grande disastro ambientale della storia italiana, cinquantacinque anni fa. Il Ponte Morandi, per dirne uno, era ancora da costruire. Alla fine, le vittime accertate sarebbero state 1918, ma probabilmente il totale superò le duemila, non fu possibile con i mezzi dell’epoca e data la situazione di frazionamento dei centri abitati interessati e la stessa natura della catastrofe determinarlo con esattezza.
La zona era quella della Valle del Vajont, al confine tra le province di Belluno in Veneto e di Udine in Friuli-Venezia Giulia, oggi nel territorio di Pordenone che sarebbe diventata capoluogo di provincia soltanto cinque anni dopo la tragedia. In quella vallata, la società che gestiva l’erogazione dell’energia elettrica, la SADE (Società Adriatica di Elettricità), prima della nazionalizzazione dell’energia elettrica che sarebbe arrivata di lì a poco con la costituzione dell’ENEL, aveva deciso di costruire una diga, per sfruttare l’energia liberata nel bacino dell’invaso.
L’Italia era un paese povero di materie prime utilizzabili a fini di produzione energetica, e aveva dovuto fin dall’inizio della sua industrializzazione (avvenuta in ritardo dopo l’Unità e sviluppatasi soltanto nel Novecento) orientarsi verso la produzione di energia rinnovabile. La principale, se non l’unica all’epoca, era l’energia idroelettrica che poteva essere prodotta sfruttando – ovunque fossero – i corsi d’acqua. Soprattutto ovviamente nelle zone montane. Fin dall’immediato dopoguerra la Società Idroelettrica Veneta, poi confluita nella SADE, aveva chiesto ed ottenuto di poter costruire quella diga. Il Genio Civile aveva dato parere favorevole nel 1948, dopo quasi 20 anni di studi e relazioni geologiche che avevano attestato come le montagne che delimitavano la vallata del Vajont e a cui avrebbe dovuto essere appoggiato il manufatto che chiudeva l’invaso erano assolutamente sicure, da un punto di vista della presenza di fenomeni di frana.
Era un’epoca in cui le tematiche ambientaliste erano ben di là da venire, ed era semmai impellente al massimo grado quella della elettrificazione del territorio italiano e della sua definitiva industrializzazione, in pieno boom economico. Poco importava all’opinione pubblica dell’epoca ed alle autorità competenti che non tutte le voci che si erano espresse in merito alla diga fossero esattamente concordi. Poco importava che uno dei due monti a cui sarebbe stata ancorata si chiamava Toc, abbreviativo di Patoc, che in dialetto friulano significa marcio. La gola del Vajont, dalle Prealpi Carniche fino allo sbocco nel Piave, sembrava fatta apposta per creare nuova energia in quantità, e con essa sviluppo e benessere. E tanto allora bastava.
Nessuno in realtà se la sentì di mettere in discussione le relazioni ufficiali dei geologi Semenza e Dal Piaz, che avevano individuato il punto preciso in cui costruire la diga, all’altezza del ponte di Colomber dove la strada che saliva da Longarone al paesino di Erto, inerpicato sul fianco della montagna, traversava il torrente. I lavori dunque cominciarono nel 1957, dopo altri dieci anni di studi in cui si era valutata l’opportunità di innalzare il livello della diga dai 202 metri inizialmente previsti fino a ben 679. La diga sarebbe diventata l’impianto principale in un sistema complesso che dalla valle del Cadore nell’alto corso del Piave avrebbe fornito energia elettrica sufficiente a soddisfare il fabbisogno non solo di Venezia ma di tutto il Triveneto.
I lavori terminarono due anni dopo. A partire dal 1960 si cominciò a riempire l’invaso, e fu proprio allora che qualcuno, tra cui Edoardo Semenza, figlio di quel Carlo che aveva redatto i primi studi sulla fattibilità della diga, si accorse dei segni evidenti sul costone della montagna chiamata marcia di frane consistenti risalenti all’età paleolitica. Tuttavia ormai si era in ballo, e si doveva ballare. Il 4 novembre 1960 tuttavia la natura dette all’uomo un primo (ed ultimo) avvertimento. Una frana di 800.000 metri cubi si staccò dal monte e precipitò nel bacino provocando un’onda alta 10 metri. Qualcuno cominciò a prestare orecchio a chi, come la giornalista Tina Merlin de L’Unità, cercava di dare voce alle perplessità circa la sicurezza dell’impianto che si era realizzato. «Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l’esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli.»
Le autorità e la SADE andarono a dritto, come di italico costume, La Merlin fu addirittura denunciata per diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, poiché continuò per lungo tempo la sua campagna di stampa contro la Diga del Vajont. Fu assolta dal tribunale di Milano, quando già la tragedia si era compiuta ed il paese si stava spaccando in due, tra i partigiani del disastro naturale imprevedibile e quelli della catastrofe annunciata dovuta alle responsabilità dei costruttori e gestori. A quel punto, oltre allo sconcerto ed al dolore per 2.000 vittime e quasi 20 paesi spazzati via dalla carta geografica, infuriava la battaglia per la nazionalizzazione dell’energia elettrica, di cui la tragedia del Vajont finì per diventare un’inevitabile strumento. Questo fu il motivo per cui giornalisti autorevoli come Indro Montanelli e Dino Buzzati si scagliarono contro la collega Merlin e la sua campagna di stampa, temendone – appunto – una strumentalizzazione da parte del centrosinistra partigiano dell’ENEL.
Si arrivò quindi all’autunno del 1963 nella valle del Vajont ascoltando, e in molti casi ignorando, quel impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. Messa in un angolo Tina Merlin e quanti a vario titolo cercavano di dare una chance agli abitanti di Longarone e degli altri paesi della vallata, l’estate di quel loro ultimo anno di vita passò sotto l’influsso di una eccezionale siccità, in una zona che era famosa proprio per la sua piovosità. L’evento anomalo spinse i tecnici gestori dell’invaso ad aprire le chiuse innalzando il livello del bacino fino al limite di 650 metri, raggiungendo il livello massimo di piena. Alla fine di settembre i sensori sul fianco della montagna cominciarono tuttavia a trasmettere segnali di attività franosa. Tardivamente i tecnici invertirono la rotta, cominciando a diminuire il livello di invaso.
La natura presentò il conto la notte del 9 ottobre 1963. Alle 22,39 dal costone del Monte Toc si staccò una frana lunga 2 km e del volume di 270 milioni di metri cubi. La frana ci mise 20 secondi a raggiungere il bacino. L’impatto generò due onde, una risalì i versanti distruggendo i paesini di Erto e Casso che vi erano appollaiati da tempo immemore, l’altra – 50 milioni di metri cubi – andò a scavalcare la diga precipitando sulla valle sottostante. Longarone, il centro abitato principale, fu spazzata via quasi completamente insieme ad altri 13 borghi della vallata. Altri sei furono gravemente danneggiati, l’onda di piena arrivò perfino ad un sobborgo di Belluno, la borgata di Caorera che fu anch’essa distrutta.
E’ stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fosse circa due volte superiore a quella provocata dalla bomba atomica ad Hiroshima. Alcuni sopravvissuti testimoniarono di aver visto loro concittadini scagliati via a centinaia di metri di distanza prima che l’onda di piena si abbattesse sul suolo, a 100 km orari di velocità.
Lo spettacolo che si trovarono di fronte gli Alpini dell’Esercito arrivati alle prime luci dell’alba a portare i primi soccorsi fu quello di un’ecatombe. Dei circa 2.000 morti ne furono recuperati pressappoco due terzi. Alcune casseforti recuperate a fondovalle erano talmente danneggiate da non poter essere aperte se non con la fiamma ossidrica. Il processo per l’accertamento delle responsabilità, assegnato in primo grado al Tribunale dell’Aquila (dove per ironia della sorte si sarebbe verificato 46 anni dopo il disastro ambientale più vicino nell’immaginario collettivo a quello del Vajont) si aprì nel 1968. Si concluse in terzo grado a Roma in Cassazione nel 1971 con l’assoluzione di quasi tutti gli imputati. La Corte accolse in sostanza la tesi della non prevedibilità della disgrazia. Le 2.000 vittime di Longarone e dintorni fu come se fossero rimaste senza sepoltura.
Nel febbraio 2008, durante l’Anno internazionale del pianeta Terra dichiarato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in una sessione dedicata all’importanza della corretta comprensione delle Scienze della Terra, il disastro del Vajont fu citato, assieme ad altri quattro eventi, come un caso esemplare di disastro evitabile causato dal «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare».
Al di là di tardive ammissioni di colpa e risarcimenti postumi, comunque, valgono alla fine le parole del Presidente Napolitano che cinquant’anni dopo nel discorso commemorativo affidato ad una nota ufficiale ha parlato di «drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità», e ha ricordato come il Parlamento italiano abbia scelto proprio questa giornata del 9 ottobre quale «Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo».
Dopo mezzo secolo, finalmente, Longarone riposa in pace.
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