(Nella foto: il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro)
Per 55 giorni il paese era rimasto con il fiato sospeso. L’agguato di Via Fani aveva spazzato via le cinque vite della scorta di Aldo Moro insieme all’illusione degli italiani di vivere finalmente in un’epoca che si era lasciato il peggio alle spalle, con le guerre, le ricostruzioni, le tensioni sociali ingovernabili da un sistema democratico. E invece no, il peggio doveva ancora venire.
Via Fani era stato un brusco e tragico risveglio, con quelle raffiche di mitra secche, implacabili, e quel lago di sangue lasciato in terra e tra i rottami della FIAT 130 del corteo che scortava Aldo Moro verso il Parlamento, dove quella mattina del 16 marzo avrebbe dovuto aprire una nuova era per l’Italia: la fine della Guerra Fredda, almeno nel nostro paese, con l’ingresso del P.C.I. nell’area di governo e la costituzione di un nuovo e più clamorosamente ampio centrosinistra.
Qualcuno lo aveva definito compromesso storico, con accezione non si sa quanto positiva dei termini. Nella migliore, l’Italia veniva a patti con se stessa e con una tensione sociale paurosamente latente e negli ultimi anni sfociata nella strategia della tensione, che rischiava di farla diventare un campo di battaglia come era stata la Grecia trent’anni prima.
Se l’esperimento avesse funzionato, la più fragile delle democrazie europee avrebbe costretto il mondo intero, Occidente ed Oriente, a venire a sua volta a patti con se stesso mettendo da parte guerre calde o fredde. O così almeno speravano tutti, a cominciare dall’uomo che quella mattina veniva scortato in Parlamento a fare la storia.
Ma c’erano all’opera forze potenti, che alla luce del sole o sotterraneamente agivano perché la storia continuasse per quello che era stata fino a quel momento, con il suo tributo di sangue e la sua insanabile contrapposizione tra i blocchi. Conformemente ad una strategia scritta in più stanze dei bottoni e da diversi e disparati attori, i gruppi eversivi, i terroristi, avevano alzato progressivamente la posta in gioco ed il livello dello scontro, fino a che quel giorno di marzo l’escalation arrivò al termine, con l’attacco al cuore dello Stato.
Abbiamo rievocato Via Fani, e quella mattina surreale in cui adulti e ragazzi appresero che il mondo tutto sommato confortevole e avviato verso un indiscutibile e irreversibile progresso civile e materiale in cui erano vissuti dal dopoguerra, in una parola il boom economico, era finito sulle note delle raffiche di mitra sparate dal commando brigatista di Gallinari, Balzerani & c., affogato nel lago di sangue rimasto in Via Fani, tra i cadaveri dei carabinieri di scorta e le lamiere devastate.
Abbiamo rievocato anche i 55 giorni in cui, a partire da quel 16 marzo, l’Italia si spaccò in due, a livello politico e anche sociale, tra i sostenitori della linea della fermezza secondo cui lo Stato non doveva assolutamente trattare con le Brigate Rosse, e quelli che cercavano in tutti i modi di salvare la vita a Moro. Una vita, era apparso chiaro fin dall’indomani del sequestro, decisamente in pericolo. Le BR l’avevano condannato a morte quasi subito, nel corso di uno dei processi del popolo di cui davano conto nei deliranti comunicati con l’intestazione della stella a cinque punte distribuiti ai mezzi di informazione. Ma la condanna era stata sospesa, a scopi tattici, perché Mario Moretti e gli altri brigatisti – con l’escamotage dello scambio proposto allo Stato tra Moro e alcuni brigatisti in carcere – puntavano di fatto ad un riconoscimento politico che per loro sarebbe stata la più grande delle vittorie.
Gli ultimi giorni di aprile di quel 1978 il tempo era sembrato scorrere inesorabile e pesante, scandito come una sentenza capitale. Il Papa Paolo VI aveva lanciato la supplica agli uomini delle Brigate Rosse perché rilasciassero il loro prigioniero restituendolo alla famiglia. Bettino Craxi, leader del partito socialista italiano e in generale dello schieramento che propendeva per la trattativa a scopo umanitario, aveva tentato tutte le strade possibili affinché quella trattativa prendesse piede, inutilmente. E poi c’erano le lettere di Aldo Moro. Alla famiglia, ai colleghi di partito, ai comunisti ingrati, alle autorità pubbliche, al Papa. Strazianti. Tristi, solitarie e in qualche modo finali, per dirla prendendo a prestito un celebre titolo di Osvaldo Soriano.
I vari processi hanno ricostruito cosa successe in parallelo sull’altro fronte, quello brigatista che nella Prigione del Popolo stava decidendo il destino di Aldo Moro. Morucci e la Faranda, o per soprassalto di umanità o per tatticismo, dissentirono dall’esecuzione della sentenza di morte per Moro, spaccando il fronte delle BR. Per la linea della fermezza furono Moretti, Gallinari, Maccari e tutti gli altri.
Il destino dello statista pugliese si compì la mattina del 9 maggio 1978. Fu fatto uscire dal rifugio di Via Montalcini e condotto in un garage dove lo attendeva una Renault 4 rossa. Al prigioniero fu detto che veniva trasferito, in attesa di essere liberato. Una bugia pietosa, un ultimo soprassalto di umanità al quale non sapremo mai se Moro credette, almeno per qualche istante, mentre docilmente eseguiva l’ordine dei brigatisti di accomodarsi nel bagagliaio della Renault.
Qualcuno dei brigatisti lo coprì con un telo, e per gli occhi di Moro la luce si spense. I primi colpi gli furono sparati da Mario Moretti nome di battaglia Maurizio con una Walter PPK, la pistola che conoscevamo per essere quella di 007 nei romanzi di Ian Fleming e nei film di Sean Connery. L’esecuzione fu problematica come lo era stata quella di Maria Stuarda. Allora la lama della scure non affilata, stavolta la pistola che si inceppò. E sotto quel telo, non sapremo mai se il prigioniero aveva ancora coscienza di quanto gli stava succedendo, un ultimo soffio di vita da esalare, disperato.
Quella coscienza fu spenta dalla raffica della mitraglietta Skorpion (conoscevamo anch’essa, per motivi più sinistri, in quanto era stata la più fedele amica dei terroristi in tutte le loro imprese precedenti) che, sempre per mano del boia Moretti, finì il lavoro. Ancora Moretti si mise imperturbabile alla guida della R4 che conteneva a quel punto il cadavere di Aldo Moro e la condusse a Via Michelangelo Caetani, in un punto di Roma scelto a sommo studio perché equidistante sia da Piazza del Gesù, sede della Democrazia Cristiana, che da Via delle Botteghe Oscure, sede del Partito Comunista. Come a dire, eccolo il vostro compromesso storico, eccolo qui.
Alle 12:30 Valerio Morucci effettuò la telefonata finale del sequestro Moro al professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro stesso. Quella voce che abbiamo risentito mille volte nei servizi televisivi, che si qualificava inizialmente come il «dottor Nicolai» e con tono freddo, atrocemente corretto, chiese a Tritto, «adempiendo alle ultime volontà del presidente», di comunicare subito alla famiglia che il corpo del presidente si trovava nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, «i primi numeri di targa sono N5…», in via Caetani. E ripeteva il messaggio, incurante della voce rotta di Tritto che gli chiedeva spiegazioni.
Ricordiamo bene anche quel giorno, anzi quel pomeriggio. Come dimenticare? Se il 16 marzo era stato surreale, il 9 maggio fu semplicemente tragico, nel senso greco del termine. Un clima plumbeo calò sulle nostre città, con la consapevolezza che qualcosa di gravissimo e di irreversibile era appena accaduto e qualcosa di ancora più grave e di inimmaginabile poteva accadere adesso, come conseguenza.
Il corpo straziato di Aldo Moro esposto agli obbiettivi dei fotografi simboleggiò in quel parcheggio di Via Caetani la morte di tante cose, personali e collettive. Sapevamo, mentre non riuscivamo a distogliere increduli gli occhi da quelle immagini, che niente sarebbe potuto essere come prima, che la nostra vita sarebbe cambiata, ed inevitabilmente in peggio. Pensavamo che la nostra fragile democrazia non avrebbe retto (qualcuno, come l’insospettabile leader repubblicano Ugo La Malfa, ex partigiano antifascista, aveva chiesto apertamente la reintroduzione della pena di morte nel nostro ordinamento giuridico), né avrebbe retto la nostra ancor più fragile libertà.
Non immaginavamo ancora che sarebbe arrivato un altro vecchio partigiano, Sandro Pertini, a mettersi di nuovo alla nostra guida, ad invitarci a stringere i denti e a venire fuori da quegli anni di piombo. Non immaginavamo che il nostro paese in qualche modo ce l’avrebbe fatta, ci sarebbe riuscito. Le BR e chi le aveva armate avevano i giorni contati, e il count-down cominciò proprio quel pomeriggio a Via Caetani. Mentre tutti ci chiedevamo che fine avesse fatto improvvisamente il nostro piccolo mondo antico.
E il cadavere di Aldo Moro, come Cristo tra le braccia della Madonna nella Pietà di Michelangelo, ricordava a tutti in modo teneramente straziante di quanto fossero fugaci le nostre illusioni, e le nostre stesse esistenze umane.
«Siamo ormai credo al momento conclusivo… vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo.»
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