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Virtus et fortuna, la politica secondo Machiavelli

«Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente all’ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso».

Così ce lo descrive lo storico Roberto Ridolfi, nella sua Vita di Niccolò Machiavelli. Ed è un ritratto che non sapremo mai quanto influenzato dal, o viceversa influenzante il giudizio, anzi il pregiudizio, con cui la Storia lo ha celebrato a partire dal giorno della sua scomparsa, avvenuta il 21 giugno 1527 nel suo podere denominato l’Albergaccio, a Sant’Andrea in Percussina alle porte di quella Firenze che – al pari di tanti suoi figli illustri – l’aveva alla fine disconosciuto e praticamente esiliato.

Niccolò Machiavelli è uno degli uomini più citati e meno studiati e compresi dell’intera storia dell’umanità. Coetaneo di quel Leonardo Da Vinci di cui anche parla il Ridolfi, ebbe con lui in comune la versatilità che portò contemporanei e posteri a considerarlo un uomo altrettanto universale. Ma non la sorte.

E’ considerato il fondatore di quella scienza della politica dalla quale ormai l’arte di governo non può più prescindere, anche se le sue vicende personali non furono sempre altrettanto fortunate delle sue intuizioni. Nato e vissuto alla fine del periodo aureo della signoria medicea dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e la cacciata del figlio di costui Piero il fatuo, Machiavelli offrì lealmente i propri servigi alla repubblica fiorentina che si ricostituì dopo la fine del periodo savonaroliano. E della repubblica seguì la sorte, nel travagliato periodo delle guerre franco – spagnole per il possesso dell’Italia.

Chissà se il Magnifico avrebbe condiviso la sua passione intellettuale, che lo portò a codificare nella sua opera più celebre, il Principe, la sua dottrina politica generale e nello specifico a disegnare la figura ottimale di governante dello Stato. Una figura che nei suoi auspici avrebbe dovuto salvaguardare assieme all’efficienza anche l’indipendenza di quello Stato, giocando come la volpe e combattendo come il leone contro i nemici che si presentavano sempre più potenti ai confini della politicamente sempre più fragile penisola italiana.

Lorenzo dei Medici, come ago di una bilancia ormai superata dai tempi, era stato se si vuole una delle cause principali di quella fragilità, assieme al Papa di Roma da sempre refrattario all’unità italiana per la salvaguardia dello Stato della Chiesa. Machiavelli aveva piuttosto individuato il proprio archetipo di principe ideale nel coetaneo Cesare Borgia, il duca Valentino figlio illegittimo del Papa Alessandro VI, che per una breve stagione era sembrato in grado di dare uno scossone significativo all’antico e frammentato assetto delle signorie italiane.

La mancanza di scrupoli del Borgia – per quanto agghiacciante se valutata dal punto di vista della morale comune – sembrava secondo lui fare proprio al caso della politica nazionale (dove per nazione non si intendeva certo all’epoca ancora l’intera Italia ma almeno una parte consistente riconducibile all’odierna Italia settentrionale e centrale). E su questa scommessa Machiavelli giocò buona parte del proprio destino.

«Questo signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a’ suoi soldati; ha cappati e’ migliori uomini d’Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna». Così scriveva ai Dieci di Libertà e di Pace (la magistratura repubblicana che sovrintendeva alla politica estera) in qualità di segretario, consigliando di accettare l’alleanza che il Borgia ripetutamente offrì a Firenze.

Cesare Borgia, il Duca Valentino

Andò male a lui ed al suo principe ideale. L’ex segretario fu esiliato dai Medici rientrati a Firenze nel 1512, l’anno prima della stesura del Principe che beneficiò dunque della sua improvvisa e forzata inattivita. Anziché al condottiero spagnolo venuto nel frattempo a mancare, Machiavelli dedicò l’opera ai rampolli medicei, che non dettero peraltro mostra di gradire particolarmente.

Nella sua accezione, il significato di princeps è inteso allo stesso modo di come lo intendevano gli antichi Romani: colui che governa, piuttosto che il nobile. Non è il sangue a creare il diritto a governare, ma sono le doti personali. Secondo la sua teoria, virtus et fortuna sono le uniche tra le doti che fanno la differenza fra un grande uomo di governo ed uno incapace, rovinoso per sé e per lo Stato di cui è signore. Virtus intesa come abilità, capacità. Fortuna come occasione propizia e prontezza di riflessi nello sfruttarla.

Fu Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana a coniare la frase che tutti avrebbero da allora in poi messo in bocca a Machiavelli, sintetizzandone l’opera ed il pensiero in maniera abbastanza grossolana: il fine giustifica i mezzi. Le buone intenzioni del critico furono fraintese al pari di quelle dell’autore, come lo stesso De Sanctis riconosceva: «Ci è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell’ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice di tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi, e il successo loda l’opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime, attribuendosi all’autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n’è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito».

Machiavelli non era un amorale. Ma distingueva tra morale individuale e ragion di Stato. Uno Stato, se vuole salvarsi e/o prosperare, non può ragionare come un individuo. Gli scrupoli di quest’ultimo non si attagliano all’azione di un governo, che dovendo valutare il bene comune può essere costretto a sacrificare quello di alcuni dei suoi cittadini, senza potersi permettere rimorsi.

E’ scienza della politica, più o meno come la conosciamo oggi, anche se linguaggio e parametri sono cambiati, ma non più di tanto. La grandezza di Machiavelli, come quella del contemporaneo Leonardo Da Vinci, sta soprattutto nell’aver immaginato oltre i suoi tempi. La pochezza dei suoi, dei loro critici consiste proprio nell’essere figli dei propri tempi, e nulla più.

Nel 1527 i Medici, che ad un certo punto si erano degnati di avvalersi nuovamente dei suoi servigi, furono nuovamente cacciati da Firenze. La nuova e definitiva disgrazia in cui cadde Machiavelli fu paradossale, essendo determinata stavolta da motivi diametralmente opposti rispetto a quelli della precedente. La presenza a Roma di un Papa Medici, Clemente VII, non lo aiutò, facendolo anzi sospettare di collusione.

L’uomo che aveva dato un senso alla politica fu sconfitto definitivamente dalla politica attiva, ammalandosi a causa di questa ennesima delusione e soccombendovi nel giro di pochissimo tempo. Le sue spoglie mortali, a cui rese omaggio sul momento pochissima gente, furono tumulate in una tomba di famiglia in Santa Croce, dove riposano tutt’oggi. Soltanto nel 1787 vi fu aggiunto dalla Città di Firenze un monumento ed una targa che recita: Tanto nomini nullum par elogium (Nessun elogio sarà mai pari a tanto nome).

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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