Il 21 maggio è il giorno di Charles e di Amelia. Nel 1927 Lindbergh fu il primo uomo a volare da solo dall’Europa al Nordamerica, senza scalo. Nel 1932 la Erhardt fu la prima donna a compiere la stessa impresa. A stabilire che almeno lassù, in cielo, i diritti e le opportunità tra i sessi erano esattamente gli stessi.
Eroi di un’epoca in cui l’uomo poteva ancora sognare, con la testa rivolta in su, verso il cielo, la Luna, l’universo. Quei temerari sulle macchine volanti si davano il cambio con gli altri, quelli sui bolidi da corsa, nell’eccitare la fantasia di un uomo e di una donna che quattrocento anni dopo Leonardo da Vinci e la sua fantascienza finalmente vedevano tradotti in oggetti e fatti concreti i suoi scarabocchi su vecchie ingiallite pergamene.
I futuristi ci scrivevano sopra poesie, gli scienziati ci facevano sopra calcoli sempre più accurati, gli uomini e le donne comuni ci sognavano sopra, negli anni venti del ventesimo secolo che sembrava aprire al genere umano le porte di qualsiasi magia. Charles ed Amelia erano eroi positivi. Le macchine volanti avevano fatto la loro comparsa già alla fine della Prima Guerra Mondiale, ma non avevano fatto a tempo a dispiegare tutto il loro terribile potenziale.
Gli orrori di cui parla il vecchio immigrato tedesco ai due ragazzi che aprono il film di Michael Bay di cui parliamo più avanti, avevano avuto luogo a terra, non ancora nel cielo. A quei due ragazzi sarebbe toccato, da grandi, vederli accadere anche nell’aria, e dall’aria. La guerra totale sarebbe stata la Seconda, e gli eroi di quella volta non avrebbero stabilito record di durata e di lunghezza delle loro trasvolate, ma di nemici abbattuti.
Il 21 maggio è anche il giorno in cui nel 2001 uscì un film suo malgrado controverso, destinato a far discutere, anche se non quanto l’evento che aveva inteso raccontare. Wai momi, in lingua hawaiiana significa acqua di perla. Pearl Harbor, l’avevano tradotto gli americani che ne avrebbero fatto il cinquantesimo stato della loro Unione, e nel frattempo la base navale da cui controllavano tutto l’Oceano Pacifico.
Quel controllo che ambivano ottenere i giapponesi, i quali attaccarono la flotta statunitense alla rada una domenica mattina di fine 1941, il 7 dicembre per la precisione. Una data desinata a rimanere tra le più importanti della storia dell’uomo, perché segnava uno spartiacque epocale. 476 d. C., la fine del Mondo Antico con la caduta dell’Impero Romano. 1492, la fine del Medioevo con la scoperta dell’America. 1941, la fine del mondo moderno, pre-atomico, e l’inizio del mondo contemporaneo. Quello che avrebbe convissuto con la sacrosanta e quasi provvidenziale paura dell’olocausto nucleare.
Ne abbiamo raccontato più volte su questo giornale. Day of infamy, lo chiamarono gli americani, furiosi non tanto per quelle portaerei e corazzate andate a fondo nella rada delle perle (sapevano di poterle ricostruire e rimettere in mare in poco tempo, come infatti fecero), quanto per la mancata consegna ufficiale di una dichiarazione di guerra da parte del nemico. Che arrivò solo quattro giorni dopo, l’11 dicembre, quando nelle Hawaii si contavano e si seppellivano i morti.
Michael Bay intese raccontare tutto questo, affidandosi al talento recitativo di Ben Affleck (l’ex bambino che apre il film volando sull’aereo del padre e ascoltando i racconti del vecchio tedesco, reduce della Grande Guerra), Kate Beckinsale, e tutti gli altri. Ed alla suggestione scenica di vecchi testimoni del tempo come quella USS Missouri che figura nel porto durante le sequenze dell’attacco (40 minuti, record battuto solo dal Soldato Ryan di Steven Spielberg). E che nella realtà aveva avuto l’onore, il 2 settembre 1945, di ospitare la resa del Giappone Imperiale nelle mani dell’Ammiraglio Douglas McArthur.
Al pubblico il film piacque, agli addetti ai lavori un po’ meno. I radical chic del Washington Post lo stroncarono in quanto romanzato (ma qual é il film o l’opera letteraria che non hanno mai romanzato un fatto storico?). I complottisti di RottenTomatoes fecero altrettanto, perché concedeva poco al revisionismo post-bellico, al mito secondo cui Roosevelt sapeva, e si lasciò attaccare per avere il pretesto per portare l’America in guerra. Complottisti che non immaginavano di dovere di lì a poco dedicarsi a ben altro complotto, su cui riversare la propria predisposizione ad alimentare immani sciocchezze.
Pearl Harbor uscì nelle sale americane quattro mesi prima che Al Qaeda facesse saltare in aria le Torri Gemelle, e con loro il nostro mondo. Settant’anni dopo, il mito del complotto ordito dagli Stati Uniti contro se stessi si rinnovava. E finalmente, con i boccaloni del revisionismo fanta-storico che avevano altro a cui dedicarsi, gli spettatori poterono godersi il film in santa pace, almeno in Europa.
Gli Zero giapponesi avevano fatto nelle Hawaii ciò a cui nel Vecchio Continente, a Guernica, avevano provveduto gli Stukas tedeschi: aprire gli occhi ai sognatori degli anni venti, dimostrando loro che quelle volanti potevano essere non più macchine meravigliose, ma bensì macchine di morte. Il vecchio Da Vinci non aveva mai progettato apparecchi fini a se stessi, ma era stato sempre cosciente del loro uso possibile, soprattutto bellico. Ma i suoi epigoni del ventesimo secolo lo facevano scomparire, rendendolo quasi un apprendista stregone.
Amelia Erhardt non era più tornata dal suo tentativo di attraversare in volo il Pacifico, altrimenti chissà cosa avrebbe fatto nella Seconda Guerra Mondiale. Charles Lindbergh, finito di piangere il suo bambino rapito e ucciso nel più clamoroso caso di cronaca nera degli anni trenta, combatté da patriota la guerra che scoppiò a Pearl Harbor progettando aerei da combattimento e in qualche caso addirittura pilotandoli.
Del sogno di Leonardo e di quei ragazzi e ragazze temerari sulle macchine volanti, pochi anni dopo, non era rimasto più nulla.
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