Il 23 novembre 1991 fu il giorno dell’annuncio. Il mondo, fino a quel momento ignaro, apprese che Freddy Mercury aveva contratto l’AIDS, la piaga del secolo, malattia che a quell’epoca ancora non perdonava, e che pertanto il suo tempo tra noi era ormai contato.
Contato a minuti, a ore. Freddy aveva riservato quell’annuncio per l’ultimo momento, per proteggere la privacy sua e di chi gli stava vicino. Sapeva da tempo di aver contratto la sindrome, facendo parte di una delle categorie a rischio. La broncopolmonite che lo aveva affetto in estate approfittando delle sue difese immunitarie ormai debellate gli dette il colpo di grazia.
L’ultima sua apparizione pubblica era stata a maggio, durante la registrazione di quello che era destinato a rimanere come l’ultimo album dei Queen con lui come frontman, Innuendo. Era apparso provato, debilitato, dimagrito. I video pubblicati, come quello di These are the days of our lives che chiude l’album, lasciavano poco spazio all’immaginazione.
A novembre, il cantante decise di sospendere anche le cure sperimentali, legali e clandestine, a cui era stato sottoposto, limitandosi ad assumere antidolorifici. Mentre dettava al suo agente Jim Beach il comunicato stampa sulla sua condizione, Mercury non ci vedeva più, era allo stremo delle forze. Che vennero meno definitivamente 24 ore dopo. Si spense alle 18,48 del 24 novembre 1991. Nel momento del suo ultimo respiro, accanto al suo letto era presente soltanto l’amico musicista britannico Dave Clark, oltre all’inseparabile gatta Delilah.
L’ex ragazzo immigrato da Zanzibar aveva dettato disposizioni precise circa le sue esequie, chiedendo che fossero eseguite alla presenza di un gruppo ristretto di amici e colleghi e celebrate da sacerdoti zoroastriani. Di quella antica religione proveniente dagli altopiani dell’Asia centrale che era in qualche modo sopravvissuta anche nella ex colonia inglese in cui era nato il 5 settembre 1946 colui che un giorno sarebbe stato acclamato come una delle più grandi rockstar dei nostri tempi.
Le sue ceneri furono affidate alla sua ex compagna Mary Austin, che le conservò per un certo peridodo ed alla fine le sparse in una località segreta, che a tutt’oggi conosce solo lei.
E Delilah? Questa è un’altra storia, per un altro giorno. Quella di oggi si chiude con le ceneri di Freddy nel vento. E con il brano del giorno che abbiamo scelto ad hoc, credendo di interpretare correttamente l’arte e la filosofia di vita di un grande cantante e di un grande uomo, il primo che dimostrò di non vergognarsi di avere l’AIDS, fino a quel momento considerata dall’opinione pubblica una punizione divina più che una semplice – si fa per dire – malattia.
Who wants to live forever fa parte di A kind of magic, il concept album del 1986 che era stato la grande colonna sonora di un grande film: Highlander, l’ultimo immortale. Il brano in particolare accompagna il momento in cui Connor McLaud prende coscienza della sua di condizione: è l’uomo che non può morire. Immortale finché non perderà lo scontro con un altro immortale, condannato nel frattempo a vedersi morire accanto ad una ad una tutte le persone a lui più care. A non sapere più se maledire dunque la sua vita praticamente eterna o a considerarla piuttosto il dono di cui tutti parlano, e che tutti cercano e invidiano.
E’ una vicenda che rispolvera archetipi antichi quanto la storia dell’uomo, questioni filosofiche affascinanti e irrisolvibili da sempre. Per il pensiero, per la letteratura, per la musica. Il mistero della vita sta tutto in quella frase pronunciata dal Kurgan, l’ultimo avversario dell’Highlander prima del premio finale: «È meglio bruciare subito, che spegnersi lentamente».
Chissà se è stato d’accordo con lui Freddy Mercury nelle sue ultime ore….
«Ho camminato a lungo in questo vicolo deserto/ne ho abbastanza di questo solito vecchio gioco/sono un uomo di mondo/e dicono che sono forte/ma ho un peso sul cuore/e la mia speranza se n’è andata./Fuori, nella città/nel freddo mondo esterno/non voglio pietà, solo un posto sicuro dove nascondermi/Mamma, per favore, lasciami tornare dentro»
(Freddy Mercury, Mother love, 1991)
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